Tommaso Giartosio - Tutto quello che non abbiamo visto .Un viaggio in Eritrea - recensione a cura di Habté Weldemariam

Tommaso Giartosio

Tutto quello che non abbiamo visto.

Un viaggio in Eritrea

Einaudi, 2023.

 

Questo testo è l’originale reportage di un viaggio che Tommaso Giartosio, conduttore della trasmissione letteraria Fahrenheit di Radio3, ha effettuato quattro anni fa, assieme a un gruppo di fotografi, accompagnati dal loro coordinatore Antonio Politano. Erano momenti in cui la pace tra Asmara e Addis Abeba, dopo 20 anni di "nessuna pace nessuna guerra", sembrava preludere a una possibile apertura dell’Eritrea, il paese più ermetico dell’Africa, terra di estenuanti conflitti e lotte per il raggiungimento e il riconoscimento di un’identità politica.

Un viaggio in Eritrea, dunque, divenuto l'occasione per una riflessione tanto intima quanto collettiva: cosa vediamo quando viaggiamo? cosa non riusciamo a vedere? e da chi, e come, siamo visti? Tutti gli italiani che visitano l’Eritrea vengono colpiti dalla sproporzione tra i legami storici e personali strettissimi con l’Italia, di cui trovano i segni nel Paese, e l’assenza totale dell’Eritrea dalla memoria condivisa e dal dibattito pubblico italiano.

L’autore fa di un viaggio in Eritrea il prisma attraverso cui indagare la storia coloniale dell'Italia, ma anche qualcosa di più: il reciproco rapporto con l'altro, sospeso tra memoria, esperienza, desiderio di riscoperta. Il cuore inesplorato e invisibile di una verità. La verità è che l’Eritrea non è una destinazione qualunque per un viaggiatore italiano, anche se c’è stata una distorsione della realtà nel periodo coloniale, dal 1869 al 1941, e ci sono state una revisione e una rimozione delle vicende storiche nel dopoguerra, funzionali all’ autoassoluzione da parte dei colonizzatori. Ma a partire dagli anni sessanta il velo che nascondeva la reale natura del colonialismo italiano è stato squarciato dalle ricerche dello storico novarese Angelo Del Boca, seguito da Nicola Labanca e altri ricercatori.

Tommaso Giartosio, con Tutto quello che non abbiamo visto, ci racconta in maniera sensibile e inaspettata un paese, appunto, tanto importante quanto poco conosciuto, con lo sguardo mai ingenuo del poeta e dell'intellettuale, dello scrittore capace di rendere conto dei filtri che si annidano in ogni punto di vista. Lo sguardo che rivolge al mondo e a sé è molto intenso e concentrato nello scoprire quanto ci divide e quanto ci unisce all’altro: l’Eritrea, per un italiano, rappresenta il proprio passato rimosso; nell’altro c’è sempre qualcosa di noi, solo per questo possiamo fare esperienza di ciò che non conosciamo. Allo stesso tempo l’altro non smette di essere diverso da noi, perché, come scrive l’autore all’inizio del libro, «si viaggia […] per uno sguardo, una visione binoculare che incrocia intelligenza e stupore, e che possiamo anche chiamare ammirazione».

Servendosi di una convenzione letteraria, il racconto diaristico in forma epistolare, Giartosio fa vivere al lettore un’esperienza mediata dalla scrittura in due direzioni di viaggio: quello fisico, attraverso un percorso di tre settimane, in un paese in cui tutte le conseguenze storiche, architettoniche, culturali hanno inciso sull’inconscio collettivo italiano. E cioè, la presenza delle opere di architettura razionalista nella edificazione, per esempio di Asmara, che ancora resistono a testimonianza dell’impegno, certamente a beneficio del regime coloniale, di architetti, ingegneri e maestranze italiane dal 1898 al 1941; il viaggio interiore è quello in cui ci accompagna l’autore con la sua sensibilità di intellettuale, poeta, scrittore che percepisce, attraverso ciò che ha potuto vedere, quanto è nascosto e si sottrae alla vista. In alcune lettere che Giartosio indirizza ad Antonio Politano, l’amico e fotografo che lo ha coinvolto nell’avventura eritrea, egli racconta diversi episodi di un percorso fatto di incontri, di osservazione, scrutando come quando si entra nel silenzio di un museo. Si va per vedere qualcosa di estraneo, per risolvere il segreto di un luogo. Riferisce ad esempio di essere stato invitato a diverse feste di nozze “da perfetti sconosciuti incontrati per strada”. Comunque, destinataria ideale resta ogni persona che provi, anche solo con la mente, a uscire dalla propria comfort zone per aprirsi ad altri mondi.

Il tema del doppio, quello dell’occhio umano e quello mediato dall’obiettivo della fotocamera, ricorrono nel testo che si avventura in osservazioni, citazioni, testimonianze, scoperte, reminiscenze, offrendo a chi legge una vastità di punti di vista su una realtà che gli Italiani hanno totalmente rimosso.

Ed è proprio all’interno di questa doppia tensione che agiscono le pagine epistolari del testo di Giartosio, tra pratica del viaggio e sua visione. Uno sguardo che però non è mai mera idealizzazione, bensì apertura a un confronto sia culturale che temporale. A proposito, impossibile non parlare della gastronomia, dalla pizza e la pasta, alle meravigliose macchine per l’espresso servito, però, con il popcorn. Tutto il patrimonio materiale e immateriale lasciato dagli italiani è stato “eritreanizzato” e riutilizzato, perché il popolo eritreo è maestro di resilienza. Nella città di Asmara, rimasta intatta dal periodo coloniale, girano ancora misteriosamente vecchie Balilla, oppure le Fiat 500 di mezzo secolo fa; si mangiano nei ristoranti le tagliatelle e i maccheroni, piatti tipici italiani ma insaporiti dal piccantissimo berberé.

Due annotazioni utili a premessa della lettura di questo interessante diario.

La prima è che l’autore non poteva sapere al tempo del suo viaggio che quella parentesi pacifica di apertura dei confini (2018) era in realtà il preludio ad una alleanza militare contro il Tigrai, la regione etiope confinante dell’Etiopia settentrionale, che portò poi a una sanguinosa guerra dal novembre 2020 al novembre 2022.

La seconda è che se la storia è molto presente nelle riflessioni di Giartosio, altrettanto lo sono le azioni degli attuali governanti del paese che vive sotto un regime autoritario.

L’autore percepisce subito la durezza di tutto ciò che non viene mostrato: i prigionieri dentro i container delle navi; i sotterranei che sono orride prigioni da cui non si esce; i ministeri, gli uffici del governo, la brutalità dei poliziotti…

I reportage di viaggio non sono saggi di geopolitica, ma l’autore non tace sulla repressione, sulla povertà diffusa, sul servizio civile a tempo indeterminato che inizia con l’arruolamento a 17 anni e il conseguente esodo dei giovani non solo verso l’Europa e gli Usa, ma anche verso Etiopia, Uganda, Sud Sudan e i paesi del Golfo. Ricorda inoltre le tragedie, come i naufragi del 3 ottobre 2013 a Lampedusa dove perirono 367 eritrei, coperti ufficialmente dal silenzio di Stato perché l’esodo rimane un tabù. A tale riguardo ricordiamo che quel 3 ottobre 2013 il mondo intero era in lutto, l’Italia in primis con le bandiere tricolori esposte all'esterno, tenute a mezz'asta in segno di lutto, Eccetto quella dell’Eritrea che svolazzava sola, più alto possibile.

 Alla fine il viaggio in Eritrea insegna che non conta solo riscoprire il nostro passato e i legami dimenticati con l’Africa, ma interrogarci su cosa è diventato in questi decenni senza memoria il nostro rapporto con l’Altro. Ventritré capitoli che racchiudono un'esperienza intensa, appassionante, tanto che l'autore, alla fine, ha la sensazione di non aver raccontato abbastanza tutto ciò che gli ha riempito il cuore; sente di aver lasciato qualcosa indietro, per esempio “gli alberi dei viali di Asmara” o altri pezzi di vita vera; non tutto si può vedere, ed è il senso del titolo del libro, perché “per vedere devi guardare e, nel guardare, come in ogni abbandono, c'è una ricerca ma anche una rinuncia”.

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