Tommy Kuti -Ci rido sopra- a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

Tommy Kuti

CI RIDO SOPRA

Crescere con la pelle nera nell’Italia di Salvini

 Rizzoli, 2019

 

  Un avvertimento ai lettori non proprio addentro al frasario dei rapper : non scoraggiatevi, parole come swag, para, bro e sista, trollare, gafi dopo un po’ non vi imbarazzeranno più, una volta che avrete preso familiarità con l’autore del testo, un simpatico ed espansivo italiano di origine nigeriana, che rappa con un forte accento bresciano. Anzi, se andate subito su youtube per ascoltarlo,  capirete meglio... E’ diventato famoso con il pezzo intitolato Afroitaliano, edito nel 2017, entrato poi in un album nel 2018.

Già dal titolo e dal sottotitolo capiamo a che cosa andiamo incontro nella lettura: non un pamphlet arrabbiato contro tutto e tutti, solo uno che cerca di dire la sua, senza troppi peli sulla lingua e senza targhette politiche, e con molta, molta ironia. In Italia, sottolinea Tommy Kuti, basta pronunciare razzismo, ius soli, o.n.g e sbarchi di migranti, diritti e giustizia, che ti ritrovi con una etichetta addosso che ti fa invitare, come rapper politico,  a eventi dove canti i tuoi pezzi a un pubblico che non si meraviglia per niente di quello che dici, perché è già d’accordo con te prima ancora che tu gli spiattelli le tue idee sull’argomento. Gli piacerebbe invece cantare le sue canzoni a un provinciale e retrogrado pubblico della Padania per cercare di far riflettere qualcuno…

Questo perché a differenza  di altri stati, come per esempio gli Usa, l’Inghilterra, la Francia, dove gli artisti prendono ed esprimono posizioni su molte questioni ritenute importanti per la vita democratica del paese, comprese le elezioni di un premier o di un presidente, come farebbe qualsiasi cittadino, da noi situazioni del genere sono criticate e scoraggiate: l’artista deve essere  scevro da implicazioni politiche e non si deve capire da che parte sta.

Il testo ruota intorno a linee principali che abbiamo già incontrato nel “Manifesto di una donna nera italiana” della Hakuzwimana Ripanti, da noi recensito: è logico che sia così perché riflettono le comuni esperienze dei giovani della cosiddetta seconda generazione. Per prima cosa, il concetto d’identità: ma sei più italiano o più africano? Domanda che suscita il massimo di irritazione in entrambi. Ma che dire di un bambino piccolo che abita in un paesino sperduto della Val Camonica, dove sono tutti bianchi e italiani e lui ( di origine nigeriana come i suoi genitori) si pensa veramente uguale a loro?  Con una mamma che cucina cibi italiani, imparati sui libri e un padre che gioca a bocce con i paesani, esprimendosi in dialetto bresciano e la domenica, quando arrivano a trovarli amici e parenti nigeriani, lui avverte i genitori, urlando tutto eccitato “arrivano i neri!”…

Passa poi a parlare di un quartiere malfamato e multietnico, il famigerato 5Continenti di Castiglione delle Stiviere, dove ci sono talmente tanti nigeriani che la sua prima lingua diventa lo yoruba, facendo un figurone durante le brevi vacanze passate in Nigeria. Finalmente ai 5Continenti trova  la cultura e la lingua del paese in cui è nato e da cui se ne era andato coi genitori all’età di 2 anni, lingua che però deve condividere con l’inglese. Il padre non transige: l’inglese resta la lingua che ti spalanca tutte le porte e poi non si sa mai dove ti porta il destino. L’inglese lo conduce da adolescente, durante le vacanze, a Londra, presso parenti, dove frequenta altri tipi di nigeriani, interamente presi dal rap americano, tutto gangsta e machismo, jeans beaggy e cappellino da baseball.  Ma, durante uno scambio linguistico con un high school della Pennsylvania,  tira fuori la sua italianità: pur criticando la scuola italiana in cui è cresciuto, lì si sente un dio culturalmente parlando, dato il basso livello di cultura generale degli studenti americani  rispetto a quelli italiani e difende anche la mascolinità italica, tanto che viene definito l’ ‘italian  black stallion’…

La sua ragazza è un mulatta americana, nata e vissuta in Germania, di madre italiana e padre afroamericano delle Barbados : se resteranno insieme e avranno figli, pensa, sarà un bel fritto misto identitario! Per sbrogliarsela Tommy si definisce cittadino del mondo, come tutti gli altri giovani della Generazione 2-3 ecc. che sentono la identità della persona eternamente fluida, inclusiva, non facilmente etichettabile e fissabile da  passaporti o  permessi di soggiorno.

La scuola italiana non gli ha dato molto, giudicata vecchia e poco moderna e con una classe insegnante poco attenta ai ragazzi stranieri, alle tematiche del bi-trilinguismo, alle esigenze degli alunni poveri o problematici. Perché Tommy, ragazzo nero, obeso, proveniente da un quartiere conosciuto per lo spaccio e i lavori di contraffazione,  qualche problema in più degli altri ragazzi ce l’aveva. Ricorda con riconoscenza l’unica insegnante delle elementari che lo ha capito e messo in grado di superare, almeno in parte, la sottostima di sé che lo portava a fare il bullo aggressivo.

Naturalmente altro asse portante del testo è il razzismo: non che lui sia stato oggetto di episodi di violenza: più che altro il razzismo dei benpensanti veneti, fatto di barzellette irriguardose nei confronti dei neri, di gesti e frasi di esclusione, frutto di  ignoranza nei confronti dei paesi e delle culture africane, di impossibilità di pensare ad un nero che parli benissimo l’italiano, che voglia andare all’università e che si laurea effettivamente a Cambridge.

Soprattutto l’uso della parola “negro” lo rende particolarmente suscettibile, per la mancanza di comprensione della carica di negatività che si porta appresso storicamente questa parola; a scuola, alle elementari, era motivo, per lui, per fare a botte, rabbiosamente, approfittando anche della sua mole notevole che lanciava contro i compagni.

Si scaglia anche lui contro i media e la politica che non parlano mai della normalità dei migranti: famiglie perbene che lavorano, mandano i figli a scuola e desiderano per loro le stesse cose dei genitori italiani. In primo piano, l’immagine mediatica dei nigeriani: ci sono solo quelli che delinquono, le prostitute, la droga , i Boko Haram.

Tutto il testo è un canto di ringraziamento a sua madre e a suo padre, migranti ‘normali’ che, da poveri che erano, i soldi li hanno fatti, legalmente e senza frodare il fisco, con un lavoro durissimo e tanti anni di privazioni e umiliazioni. Gli hanno insegnato il valore dei soldi, del lavoro e del sudore: lo hanno fatto lavorare da  ragazzetto per aiutare il business di import-export che il padre aveva messo su dopo il lavoro da operaio, non ha quasi avuto adolescenza per aiutare la famiglia. Gli hanno insegnato che non è con i vizi, le mollezze e l’ozio  che si conquista un posto nella vita.

Le famiglie dei migranti sembrano poco affettuose nei confronti dei figli, li seguono poco negli studi, non badano ai loro desideri: non per cattiveria, ma per il tempo che devono dedicare al lavoro, per pagare il cibo, l’affitto, l’occorrente per la scuola e tutto il resto. Non che non si dedichi tempo allo svago e al divertimento. I nigeriani, per esempio, dice Tommy Kuti,  sono un popolo festaiolo, ma prevalentemente la domenica e le feste comandate assieme agli altri compaesani, magari dopo le funzioni della chiesa evangelica. I genitori africani non sono apprensivi e soffocanti come quelli italiani, riflette Tommy, ma c’è il rovescio della medaglia: manca una educazione ai sentimenti e all’affettività.

Il diario del padre degli anni ‘90, diventa, riscritto dal figlio e inserito nel libro, un filo conduttore per descrivere tutto questo e s’insinua tra le riflessioni di Tommy. Basta vedere la carriera fatta dal rapper per capire che lui ha messo in pratica, per farsi largo  nel difficile e ambiguo mondo della musica, questo straordinario istinto per l’imprenditoria che rivelano i nigeriani e che lui ha appreso dal padre. Tanto da scrivere un capitoletto dedicato ai giovani che  cercano di sfondare nel mondo musicale simile a quei manuali del genere ‘come diventare un uomo di successo’.

Le parti più divertenti riguardano la sua educazione al sesso e i rapporti con le donne, la costruzione della sua carriera di rapper e il suo rapporto con la religione. Il titolo del capitolo “Gesù era un tipo sciallo” già svela molte sue idee in proposito: non ateo, ma estremamente critico verso le chiese storiche e organizzate, cristiane o islamiche. Irriverente ma non irreligioso, dato l’alto tasso di contatto con la spiritualità che hanno i nigeriani yoruba e a cui è stato abituato fin dall’infanzia.

Dalla storiellina innocente con una sua compagna di IV elementare al primo vero flirt sentimentale a 19 anni ha sempre dovuto lottare per essere accettato dalle ragazze e dalle loro famiglie padane : nero e grasso, un doppio ostacolo insormontabile.

Le ragazze lo coccolano come un grosso orsacchiotto, lo vogliono come amico, ma di ‘limonare’ non se ne parla proprio. Due cose lo sdoganano da un rifiuto costante: il calciatore Balottelli, nero italiano fico e di successo, sempre accompagnato da fighette paurose che fa da apripista, e il sesso fatto in Pennsylvania con delle accondiscendenti compagne di scuole, molto più aperte al mondo delle ragazzette provinciali tra il bresciano e il mantovano. Il terzo elemento definitivo: il suo successo nel mondo musicale che gli ha spalancato l’accesso al mondo femminile. Con il quale intrattiene però relazioni un po’ disturbate: non riesce a capire il messaggino telefonico della buonanotte, l’importanza data al festeggiamento romantico di San Valentino,  i regalini e tante altre romanticherie, all’amore concepito come un film hollywoodiano o un cartoon di principesse e fatine. Il motivo l’ha già spiegato, quando ha delineato come è stato educato e richiama anche una concezione dell’amore più concreta e meno sopra le nuvolette rosa che hanno la maggior parte degli africani.

Il capolavoro della sua vita è il successo come rapper. Umilmente racconta la sua gavetta durata 5 anni, durante i quali non si è risparmiato e ha cercato di utilizzare quanto studiato nei suoi corsi universitari, avendo compreso che non basta il talento per imporsi, ma bisogna saperci fare con il marketing e le giuste frequentazioni. Rammenta come abbia conosciuto ragazzi molto più dotati di lui ma che sono fermi al palo per ragioni che non hanno nulla a che fare con le doti poetiche o musicali.

Scopre a 16 anni l’hip hop e i mitici rapper americani,comincia a praticare i contest freestyle, il beat boxing; le interviste ai rapper italiani di successo gli servono per capire come hanno fatto per sfondare nel mondo invidioso e scivoloso della musica. Il trasferimento a Milano e la conoscenza con il mondo dello styling, interrompe le penose esibizioni davanti a 2-3 persone a Brescia , di fronte alle quali non si è  mai scoraggiato.  Il sostegno dei suoi amici di sempre e dei genitori che non l’hanno aiutato ma non l’hanno ostacolato nemmeno,  ha reso possibile il miracolo: un contratto con la Universal,  una delle major discografiche più importanti al mondo. La manager Paola Zukar  ha avuto fiducia nel rapper laureato e così poco vicino all’immaginario del rapper di periferia, vero o fasullo che sia. Lui il suo mondo se lo porta dentro, il quartiere malfamato e multietnico, il benessere faticosamente raggiunto dalla sua famiglia, le origini nigeriane e la interculturalità praticata per davvero e non solo a parole ai 5Continenti.

Oggi il povero sfigato di un tempo non abita più in una oscura trap house bresciana, ha un bel conto in banca, viene richiesto dalle case editrici per scrivere la sua storia, può permettersi quello che la sua famiglia ha sempre sognato per lui, però...però. Andrebbe tutto bene se non fosse per il contesto politico italiano attuale, segnato dal berlusconismo prima, dal salvinismo poi, con una sinistra sempre più destra, con la gara dei big non ad esporre programmi seri di rinnovamento ma a spararle più grosse dell’avversario di turno, ricorrendo e rincorrendo  “i like”, le fake news, i twitt ecc. Proclama come molti giovani la sua estraneità e distanza da questo mondo politico falso.

Ma ancora una volta si ribadisce, come fanno tanti giovani afroitaliani, che questo è il paese in cui si vuole vivere, perché lo si ama e lo si odia, ma comunque fa parte della costruzione della loro persona di oggi. Superficiale ma vero, un po’ costruito a tavolino, ma con tratti di una verve narrativa autentica, non pretende di essere un saggio il suo libro, solo la storia di Tommy.

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