Nuruddin Farah, Sardine, (a cura di Giulia De Martino)

Somalia

Nuruddin Farah

Sardine

Edizione Lavoro, 1996

Traduzione di Maria Ludovica Petta

Un romanzo di autore somalo ambientato nella Somalia prima della fine del dittatore Siad Barre non è cosa facile da presentare. Non solo per la complessità storico-politica rappresentata da questo territorio tormentato ( che ancora oggi non trova né pace né benessere, al di fuori dei loschi affari della guerra e della pirateria) ma anche per le caratteristiche dell’uomo e dello scrittore.
Nato nel ’45 nell’allora Somalia italiana, in una zona dell’Ogaden, poi passata all’Etiopia, da una famiglia di provata fede islamica, impara l’arabo, l’amarico, l’inglese e l’italiano. Studia in Somalia dapprima e poi con diverse borse di studio in India e in Inghilterra , insegna in Gran Bretagna e in Germania e si ferma in Italia dal 1976 al 1979, non potendo più rientrare in Somalia: il suo secondo romanzo in inglese A naked needle non è affatto gradito a Siad Barre, che vi ravvisa una critica al governo e alla “rivoluzione”.
E’ una telefonata del fratello che lo ferma a Roma mentre sta rientrando al suo paese: questo avvertimento lo salva dalle grinfie del dittatore, ma lo trasforma ufficialmente in un esule. La sua vita, già girovaga, subisce un’accelerazione che lo porta ad insegnare in Europa e negli Usa, per fare ritorno in Africa: in Nigeria, in Gambia, In Sudan, in Uganda e in Sudafrica, dove solitamente ormai soggiorna con la sua famiglia.
 Il potere di Siad Barre, in sella dal 1969, termina nel’91 e lo scrittore torna in Somalia  un paio di volte, ma ormai il paese è in preda ad una sanguinosa guerra civile, poi alle corti islamiche, poi di nuovo alla guerra, all’organizzazione al-Shabab, agli interventi etiopici,  in un turbinio confuso e senza fine. La Somalia  non è  un’isola dei caraibi… come cita il titolo di un testo di Mohamed Aden Sheikh (Diabasis 2010), vissuto esule a lungo in Italia ed ora scomparso.
Per Nuruddin  non è più un posto in cui tornare ad abitare e il suo destino si lega virtualmente a coloro che da quel territorio continuano ad emigrare, scegliendo di dare voce, attraverso interviste,  in un terribile e straziante testo, ai rifugiati somali (Rifugiati. Voci della diaspora somala).Tutti sono fuggiti, vittime e carnefici, ormai livellati dallo stato status.
In un’intervista durante  un convegno a Roma del 2005 ebbe a dire:”Vedi, il lavoro del narratore è narrare, non altro. Gente come me, come Nadine Gordimer, come Chinua Achebe o altri, non solo africani, non abbiamo deciso di essere qui, ci siamo trovati semplicemente a percorrere una strada a senso unico. Non siamo noi che abbiamo deciso di essere kossovari, somali o sudafricani. Ci siamo trovati in questa situazione. A causa della tumultuosità della storia, anche se uno si rifiuta di vivere su una strada a senso unico, è il senso unico a dirti dove devi andare.”
E’ evidente perciò che tutti i suoi romanzi abbiano per tema lo strazio del suo paese, l’identità somala, la cultura e la base dei valori su cui si è sempre fondata nel bene e nel male , osservati sempre da angolazioni diverse e in situazioni spesso molto originali. Il disprezzo generale di cui è circondata la Somalia a livello internazionale è una cosa che lo ferisce profondamente. La scrittura è diventata un antidoto capace di curare i comportamenti, non solo individuali, ma anche di massa. E, infatti, lo scrittore è considerato un anello di congiunzione tra le comunità somale disperse nel mondo attraverso la diaspora.
Il romanzo Sardine, scritto nel 1981, apparso in Italia nel ’96, fa parte di una complessa trilogia ,Variazioni sul tema di una dittatura africana, composta da Latte agrodolce del ‘79, Sardine dell’81 e Chiuditi Sesamo dell’83.
Forse, tra questi ultimi testi e anche quelli successivi , Sardine è quello che i lettori italiani hanno amato di più per due motivi sostanzialmente: il primo è che contiene delle parti che si svolgono in Italia , in particolare, tra gli studenti del ’68-69, il secondo è che si tratta di una storia quasi tutta al femminile, o perlomeno dove la psicologia delle donne viene più finemente analizzata. Con maggiore attendibilità  sono delineate le protagoniste somale,meno riusciti i ritratti delle due donne straniere italiana e americana,un po’ ai limiti del caricaturale.  Certo è questa una grande sfida per uno scrittore maschio, costruire dei ritratti credibili e convincenti di donne somale, ma a partire da sua madre, poetessa tradizionale analfabeta,Nuruddin Farah ha sempre ammirato la forza straordinaria delle donne del suo paese in patria e nella diaspora: è qui che  si sono definitivamente accorte che il sistema patriarcale non valorizza chi vale ma solo i ruoli stabiliti dalla gerarchia tradizionale. Sardine in scatola sono le donne, impossibilitate a muoversi e ad agire nella società, ma il titolo sembra alludere anche agli oppositori del regime, clandestini e ridotti nell’azione dal pugno di ferro della repressione.
 C’è un piacere quasi perverso dell’autore, nel far discutere liberamente le donne del romanzo, di corpi, di sesso,di aborto, di mestruazioni e perfino di assorbenti igienici. Entriamo nell’intimità proibita della reclusione femminile islamica, su cui ha tanto elucubrato l’occidente e a cui sembra  alludere  anche l’immagine dell’odalisca di Renoir della copertina del libro. Ma è un’intimità che comprende anche la confidenza tra fratello e sorella e quella tra madre e figlia. Non c’è idillio, però, nella rappresentazione dei rapporti fra donne: anche nel microcosmo femminile albergano lotte di sopraffazione  come nel mondo dominato dai maschi e come nella politica, regno all’ennesima potenza, dei presupposti del patriarcato:umiliazione, obbedienza e sottomissione.
La vicenda ruota intorno alla giornalista Medina, donna indipendente e intelligente,in lotta più o meno aperta con il potere che l’ha destituita dalla direzione del primo giornale in somalo, la quale decide di andarsene di casa insieme alla sua bambina Ubax, in disaccordo con il marito Samater che ancora ricopre un incarico ufficiale nel governo: siamo negli ultimi  anni’70, gli entusiasmi della rivoluzione socialista e democratica della prima ora sono finiti, il regime ormai reprime e uccide, ma è ancora ipocritamente osannato e sorretto dall’occidente, in particolare dall’Italia.
Il romanzo è intessuto di fitti dialoghi o monologhi piuttosto che di eventi. Questi si possono ridurre al ritorno di Nasser, fratello di Medina, al festeggiamento del Neyrus ( il capodanno in comune con i persiani e i curdi, celebrato con la simbologia dei fuochi),alla cacciata di casa della madre da parte del figlio Samater,all’imprigionamento e scarcerazione di Samater e al rimpatrio forzato dell’ attivista afroamericana Atta. Ma intorno a queste vicende si aggrumano pensieri, riflessioni, paure e speranze, in solitudine e in condivisione, della maggioranza dei personaggi.
 C’è una donna, Ebla, già presente in altro romanzo di Nuruddin Farah, secondo una consuetudine che troviamo applicata  anche in altri testi, e la figlia Segal che dialogano sostanzialmente su due cose. La vittoria della figlia a delle gare di nuoto che la candideranno  per una partecipazione all’estero in rappresentanza della Somalia, pretesto ottimo per chi voglia restare in Europa e chiedere asilo. La preoccupazione di Sagal per una sua gravidanza, il risultato del rapporto di una sola notte che la mette in ambasce circa il suo futuro. Inoltre si profila l’ipotesi, per Sagal, affascinata dalla personalità e dalle idee di Medina, di compiere azioni  in patria contro Siad Barre invece che fuggire all’estero. La madre spera che la figlia si salvi e non voglia mettersi a fare l’opposizione al regime, rischiando la libertà o la vita, perché la sua famiglia ha già dato vittime.  I dialoghi tra le due donne già immettono nel tema della differenza o dello scontro tra generazioni.
Ci sono Medina, Samater, Nasser e Sandra, una giornalista italiana molto accreditata presso il regime, che ancora crede o finge di credere all’esperienza socialista del governo di Barre:vengono spesso rievocate le loro relazioni, formatesi in Italia quando erano tutti studenti e pensavano ad un capovolgimento globale del mondo e ad una palingenesi totale. Sono molto interessanti ,per il lettore italiano, queste pagine che mettono in scena qualcosa di noto, ma osservato da un occhio diverso.
Il duello tra Medina e Sandra,nata un una famiglia alto-borghese, nasce già da allora, quando quest’ultima zittisce l’amica somala,perché si permette dei giudizi sulla realtà politica italiana, sostenendo che non può giudicare chi non è veramente addentro, come nativo. Già, ma allora , pensa Medina,perché Sandra può permettersi di farlo con la Somalia, su cui pontifica in lungo e in largo, coccolata da Barre e dai tromboni del regime?
Nasser, al ritorno dall’Italia, ha scelto una posizione defilata dalla politica, lavorando in Arabia Saudita, anche per tenersi lontano dalla madre Fatima bin Thabit, una ricca yemenita che vive reclusa in una casa, a Mogadiscio, in possesso da quattro generazioni, custode rigida delle tradizioni di una famiglia , il cui padre è stato un terribile despota e il marito un cristiano disprezzato, di cui si è liberata ben presto. Come si vede lo scontro non solo attraversa il sesso, ma anche le classi sociali e la religione.
Il tema del duello generazionale e dell’equazione patriarcato-regime politico dittatoriale compare anche nel rapporto tra Medina e la madre di Samater, Idil: lo scontro è accentuato dalla debole opposizione di suo figlio che cerca di sottrarsi, non accettando mai un confronto diretto, neanche quando questo riguarda la mutilazione genitale di sua figlia Ubax, secondo la tradizione, il triste e terribile ingresso nell’età adulta di una donna in Somalia. Per Medina questo è intollerabile,  solo quando il marito saprà affrontare la madre e il concetto di gerarchia tradizionale all’interno del clan, sarà pronto per opporsi a Boccalarga, nomignolo dispregiativo con cui nel testo si designa il dittatore. Opporsi alle aspettative di successo del clan( se un membro cade in disgrazia presso il dittatore tutto il clan fallisce) significa rompere con la catena delle gerarchie e assumersi una responsabilità individuale.
Intorno a questi personaggi principali altri entrano nella storia e precisano con le loro vicende il desolante panorama politico sociale del paese: stupri, soprusi,corruzioni e ruberie, torture e carcerazioni arbitrarie, in nome del marxismo o della tradizione patriarcale, sorretti da un occidente ottuso, desideroso solo di difendere i propri interessi e le proprie posizioni strategiche nell’area.
Ma non è tenero con i suoi personaggi oppositori Nuruddin Farah: si tratta di membri di una classe sociale che condivide con le persone al governo molti privilegi. Svolgono professioni che consentono un tenore di vita alto e si possono togliere numerosi capricci per una vita comoda e diversa dagli altri, del che, a tratti, hanno vergogna.
 Ma quale è il vero ruolo degli intellettuali, si chiede Samater e un sospetto lo attanaglia:”Bisogna ammettere la verità, siamo noi , i cosiddetti intellettuali, i veri traditori; siamo noi il cavallo di Troia di cui si servono le potenze straniere per dominare, dirigere, attribuire un nome o un’etichetta. Siamo noi intellettuali a raccontare bugie al nostro popolo; siamo noi a spiegargli che è impossibile cuocere i nostri mattoni nei forni rudimentali in cui il fuoco si è ormai spento. E quando il fuoco dell’entusiasmo è estinto, cosa facciamo?Non rimpiazziamo il forno, ma coloro che lo alimentano e ci affanniamo a dare spiegazioni, accumulando altre bugie. Siamo noi a mantenere al potere i dittatori.”Inutile illudersi, come hanno fatto tanti intellettuali somali, di poter modificare dall’interno il regime . Un’elite intellettuale è tollerata solo finché serve, poi segue il destino di tutti gli altri.
Ma allora, cosa resta? Le azioni individuali conoscono solo la repressione e ci si può permettere di giocare sulla testa degli altri, soprattutto se si tratta delle persone più vicine? E’ vero che “un regime fascista s’indebolisce quando viene sfidato”ma l’immagine di un Samater ridotto all’impotenza dalle torture e restituito alla famiglia ,perché stia accorta, frena il desiderio legittimo di lotta per una esistenza degna di questo nome. Allora, solo l’esilio?L’autore non risponde a nessuna di queste domande, non da indicazioni, aggruma situazioni e riflessioni di un cupo pessimismo sul domani.
Nel libro non troviamo solo parole e già questo basterebbe per una cultura orale in cui il culto della parola è sovrano,anche se il regime lo ha banalizzato servendosene per una propaganda martellante a suon di cassette e registrazioni, ottima per stupire e terrorizzare la popolazione analfabeta. E il terribile potere della parola, in questo caso avversato dal regime, lo percepiamo anche attraverso  la storia della cantante Dulman che cerca di far uscire dalla Somalia certe sue canzoni di protesta che rivelino, attraverso versi accorati,ai somali espatriati e agli occidentali la situazione reale del paese .
Nel romanzo i personaggi sono guidati anche dai sogni e dai segni,perfino da sogni ad occhi aperti: si tratta di pagine liriche e visionarie molto belle, in cui campeggiano fuoco e acqua, uccelli e aria: evidentemente sono forti gli influssi della tradizione poetica somala, soprattutto nomade. Il capitolo 9 si apre , per esempio, con un’alba in cui guizzano gli ultimi fuochi e fumi del Neyrus con un’immagine straordinaria di due uccelli che si combattono in volo, uno agonizza e muore, mentre una forma oscura”somigliante ad uno squalo che ostentasse una lingua di fuoco e di scarlatta lussuria”si insinua tra “le viscere del cielo”.Non solo uccelli, anche falene e formiche formano presagi e segni che annunciano i pensieri o gli stati d’animo dei protagonisti. Spesso segni di morte squarciano fantasie idilliache e compaiono coltelli che danno morte istantanea a Idil, la suocera di Medina, trasformando in strumento di uccisione la lama che doveva servire per circoncidere i genitali della piccola Ubax, come nel capitolo 10.
Non sappiamo cosa faranno i nostri personaggi alla fine della storia, irritanti e confusi come uomini e donne reali. Sapendo come è andata la Storia non possiamo che pensare al peggio.
Il romanzo ha l’ambizione di porsi come una riflessione non solo sulla Somalia, ma su tutta l’Africa che ha visto un proliferare straordinario di dittatori. Ma ce n’è anche per noi: nelle conversazioni tra intellettuali dure sono anche le accuse all’Europa e all’America sulla gestione sciaguratamente incontrollata degli aiuti umanitari in occasioni delle grandi carestie degli anni ’70, servite solo a consolidare i poteri di Siad Barre e di Hailé Selassié in Etiopia e a rassicurare l’occidente.
Come la maggioranza dei testi di Nuruddin Farah non basta una sola lettura: i suoi romanzi vanno riletti e meditati, la ricchezza dei segni e dei simboli, la quantità e qualità delle riflessioni rischia anche di confondere il lettore; occorre  abbandonarsi alla circolarità dei dialoghi e dei pensieri, estremo omaggio dell’autore alla cultura in cui è nato e si è formato.

 

 

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