Warsan Shire - Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa - recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

Warsan Shire

Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa

Fandango libri,2023

Traduzione di Paola Splendore

Warsan Shire è una poetessa britannica di origine somala: i suoi genitori sono fuggiti dalla Somalia degli anni ’80, in rivolta contro Siad Barre, prima in Kenia dove lei è nata, circa 35 anni fa, poi a Londra, quando lei aveva poco più di un anno. Le sue prime prove poetiche appaiono, a vent’anni, su Tumblr, la piattaforma virtuale dove ognuno può depositare scritti, foto, pensieri peregrini e riflessioni serie. Ben presto viene notata e insignita di un premio dalla Brunel university, dove insegna la scrittrice Bernardine Evaristo, che ha una particolare attenzione per i giovani inglesi di origine africana.  Ma il suo successo dilaga nel web quando la pop star Beyoncé, nel 2016, la chiama a collaborare al video che accompagna l’album Lemonade, dove alcuni suoi testi poetici separano le dodici parti di cui è composta l’opera dell’artista americana. Nota soprattutto sui social instagram e twitter, oltre che per il suo blog, solo recentemente, nel ’21, la Shire ha raggiunto la grande carta stampata e pubblicato una vera antologia poetica che raccoglie le composizioni di circa 10 anni: la Fandango ce la presenta tradotta nel 2023.

La sua poesia rivela i legami con la spoken poetry della scena londinese, con l’impronta di una forte socialità, ma sicuramente se ne distacca per una maggiore raffinatezza del linguaggio e anche per la specificità dei suoi temi: l’immigrazione e l’ambiguità dell’essere inglese di origine somala, il corpo e il desiderio femminile, l’attenzione ai problemi degli adolescenti che vivono tra due mondi culturali, spesso pagando con disturbi alimentari o la devianza.

Attualmente la sua poesia più nota, Home, attraverso la tragedia dei migranti naufragati a Cutro, ha raggiunto un grande pubblico e interroga, con un linguaggio duro, senza mediazioni, diretto come un pugno allo stomaco, le nostre coscienze.

Nessuno lascia casa a meno che la casa non sia la bocca di uno squalo” [...]

Nessuno lascerebbe casa a meno che non sia la casa a buttarlo fuori” [...]

 “Nessuno mette i figli su una barca, a meno che l’acqua non sia più sicura della terra”:

versi che rimandano al nostro stupore di fronte alla ineluttabilità drammatica precaria e pericolosa, anzi mortale, dettata dalle guerre, dalla fame, dai cambiamenti climatici, dalla mancanza di libertà.

Altri testi sottolineano come, mentre il posto da cui si viene sta sparendo, ( il caso della Somalia è emblematico) il posto in cui si arriva ti accoglie con file, moduli, impiegati solerti quanto freddi e distanti, funzionari dell’immigrazione che invitano continuamente a ripresentarsi; sguardi obliqui di commiserazione o gelido distacco per strada, e poi i corsi di lingua: piomba su tutto la lontananza dal paese che hai lasciato. Niente ti fa sentire a posto nella tua nuova casa. Non hai il corpo e la bellezza giusta, la cultura o la religione giusta, hai altre usanze e odori (o profumi…) che ti porti addosso. Tutti i testi recano un’impronta biografica: un’infanzia e adolescenza traumatiche vissute dalla poetessa. Un padre e una madre molto diversi tra loro e alla fine divorziati cui succede un nuovo e controverso matrimonio della mamma con un uomo violento. La ragazza ha un percorso scolastico accidentato, accompagnato da bulimia e vicinanza alle droghe, tutto questo pur facendo da madre alle sorelline nate dal secondo marito della mamma.

Comunque situazioni condivise da tanti altri soggetti emigrati ed esuli. Si sente che l’ispirazione affonda anche nelle storie della collettività migrante della famiglia o degli amici e conoscenti. Una sorta di voglia di bianchezza invade le bambine nere quando, confuse, immaginano di chiamarsi Tiffany o Kimberly in una vita privilegiata di un lucore abbagliante, compreso Dio che le guarda benevolo. L’autrice prende spunto anche da dolorosi fatti di cronaca che hanno riguardato donne e bambine nere o da donne famose dello spettacolo presentate come esempi. Ci rivela ritratti di sé e di altri adolescenti persi dietro esperienze di sesso e corporalità di cui però non possono parlare in famiglia, perché è haram. Non perdona alla sua comunità le mutilazioni genitali delle femmine o la tiepidissima accoglienza riservate ad esse alla nascita, segno di una differenza con i maschi privilegiati e di una esistenza all’insegna di obblighi e doveri, senza diritti.

Ciononostante non c’è livore nei confronti dei suoi genitori, spesso ritratti come quando erano giovani in una Somalia diversa. Entrano nella raccolta tanti versi dedicati al padre, visto nei suoi sogni o perso dietro le sue nostalgie di una Somalia che non c’è più. Sente di dovere molto a suo padre, istruito e tollerante: l’amore per la cultura le nasce da lui. Rispetto alla madre, che non si fa domande, che accetta tutto, che si sottomette al destino e cerca di vivere come se fosse ancora in Somalia ha, però, dei moti di ribellione. Non ne sopporta il comportamento religioso fatto di divieti formali e acquiescenza al destino e alle regole morali della comunità somala. La madre diventa un’amata estranea a cui può confessare di avercela fatta. Infatti ringrazia la sua ostinazione a non volere essere la ragazza che la madre e il parentado volevano, seguendo ciò che l’interiorità le suggeriva, permettendole di uscire fuori dal marasma giovanile e di avviarsi verso una accettazione critica e combattiva della duplicità della sua vita.

Warsan Shire è una guerriera e in modo quasi blasfemo si rivolge ad Allah da pari a pari, imprecando o supplicando di benedire cose che in realtà non dovrebbero essere benedette, ma attraversando le quali ha raggiunto una maggiore comprensione della realtà. Spesso questi versi utilizzano una ironia feroce come quando dice di aver pregato il dio delle diete (e dove era Dio durante la carestia in Somalia?) o quando mette in scena una sua amica che mostra al marito la prova della sua verginità, utilizzando …sangue di piccione. La poetessa mostra la sua appartenenza religiosa all’islam, piena di tensione e tuttavia non rinnegata, perché sentita come parte integrante della cultura in cui è cresciuta. Si sente che i suoi versi hanno bisogno dell’ascolto della carnalità di una voce recitante più che di una lettura silenziosa, s’intuisce la musicalità dalla flessione dei toni: l’autrice non solo ha imparato ad amare i classici, ma non ha mai dimenticato che in Somalia la poesia orale è sempre stata una tradizione culturale diffusa e amata. Lei le ha dato un tocco effervescente di melting pot metropolitano che sa un po’ di rock, un po’ di pop e un po’ di jazz.

Di seguito, una scelta di poesie tratte da questa antologia:

Infanzia estrema

Un nodo, una bambina nata/ in ogni casa, preludio di sofferenza./ Benedici la bambina, membrana di scontento/ santa patrona del non/ abbastanza buono./Sei lì Dio?/ Sono io, Warsan./ Fantasia compulsiva,/ ossessiva, dissociativa./ Nata con una ninna nanna/ che lamenta la melanina/ orecchie appena nate controllate/ per i primi segni di colore. / All’inizio avevo paura, ero impietrita./ Ogni sera la bambina legge le sure/ per sottrarsi all’il/ proteggere corpo e casa/ dagli intrusi./ Si sveglia piena di spavento,/ qualcuno recide il cordone, qualcosa si insinua/ dentro nel profondo. / Sei lì, Dio?/ Sono io, quella brutta./ Benedici la bambina capelli afro,/ testa massaggiata col latte/ dalla crudeltà, cranio maledetto, / schiacciato tra ginocchia adulte, intriso di pink lotion./ Tutto quello che mi hai fatto/ lo ricordo./ Ce l’ho fatta, mamma, a uscire viva dalla tua/ casa, cresciuta/ dalle voci/ nella mia testa.

Assimilazione

Non abbiamo mai disfatto le valigie, / sognavamo nella lingua sbagliata,/ portavamo nei piedi le paure di nostra madre- / se lui alza la voce scappiamo/ se sembra annoiato ce la filiamo / incapaci di rimuovere il rifugiato dal cuore,/ incapaci di dormire per una notte intera./

Il cuore del rifugiato ha sei stanze./ Nella prima c’è la valigia intatta di tua madre./ Nella seconda, tuo padre che piange tra le mani./ La terza stanza è un ufficio di immigrazione,/ le tue gambe tagliate nella quarta,/ nella quinta un utero – il tuo?/ La sesta si apre con i documenti giusti./

Non riesco a eliminare il rifugiato dal mio corpo,/ sprango il corpo ogni volta che posso. / Quante pillole ci vogliono per dormire?/ Quante per incontrare i morti?/ Il cuore del rifugiato spesso si ricopre/ di uno strato esterno. L’assimilazione./ Protegge l’organo. Chi non riesce a crescere la pelle in più/ muore nel giro di sei mesi nel paese che lo ospita. / A ogni posto di blocco chiedono al rifugiato sei umano?/ Il rifugiato è sicuro di essere ancora umano ma teme che di notte,/ mentre dormiva, possa essere cambiata la classificazione.

Casa

Nessuno lascia casa a meno che la casa non sia la bocca/ di uno squalo. Fuggi verso il confine solo quando vedi/ che tutta la città è in fuga. Il ragazzo con cui andavi a/ scuola, che ti stordiva di baci dietro la vecchia fabbrica di/ lattine, ora impugna una pistola più grande di lui. Lasci / casa solo quando è la casa a scacciarti./

Nessuno lascerebbe casa a meno che non sia la casa a / buttarlo fuori. Non avevi mai pensato di farlo, e quando/ l’hai fatto, hai mormorato l’inno nazionale a mezza/ bocca, hai aspettato fino al bagno dell’aeroporto per/ strappare il passaporto e ingoiarlo, a ogni triste boccone/ ti era chiaro che non saresti più tornata. /

Nessuno mette i figli su una barca, a meno che l’acqua/ non sia più sicura della terra. Nessuno sceglie giorni e/ notti nel ventre di un camion a meno che le miglia percorse/ non valgano un po’ più del viaggio. /

Nessuno sceglierebbe di strisciare sotto i reticolati,/ farsi pestare finché l’ombra non ti abbandona, stuprata,/ buttata fuori dalla barca perché sei più scura, annegata,/ venduta, affamata, sparata alla frontiera/ come una bestia malata, compatita./ Nessuno sceglierebbe/ un campo profughi per passarci un anno o due o dieci,/ spogliata e perquisita, trovando dappertutto una prigione./ E se mai sopravvivi, salutata dall’altra parte- / Andatevene a casa Negri, sporchi rifugiati, succhiate il latte/ del nostro paese, neri con le mani tese, e odori sconosciuti,/ selvaggi, guardate come hanno ridotto il loro / paese, cosa faranno al nostro?

Gli insulti sono più facili da ingoiare che trovare il corpo/ di tuo figlio tra le macerie./

Voglio tornare a casa, ma la mia casa è la bocca di uno /squalo. Casa è la canna di un fucile. Nessuno lascerebbe/ casa se non fosse la casa a spingerti verso il mare./ Nessuno lascerebbe casa se non quando la casa è una voce / all’orecchio che dice – vattene, corri, subito. Non so più /cosa sono.

Mio padre, l’astronauta

Se la luna era l’Europa, mio padre era l’astronauta che morì/ mentre andava sulla luna./ Mio padre, l’esploratore lunare mancato, accecato dallo / spazio. Mio padre, il cosmonauta nero, in delirio/ per la sete. Mio padre che sentì la voce di Dio, chiara come/ il richiamo alla preghiera, sospesa in quel deserto oscuro./ Mio padre con la tuta spaziale squarciata dal desiderio, che/ avanzava vorticando nel vasto deserto. / Una notte, dopo che gli angeli avranno richiuso le ali,/ potresti scorgere mio padre/ che sfreccia nello spazio, il suo corpo trasportato dall’assenza / di gravità, il sangue che gli va alla testa,/ le sue lacrime grumi rosa viscosi, incapaci di cadere.

Benedici la brava donna di casa

Benedici quelle che sanno aspettare/ come fa hooyo, aspettando che lui muoia./ Rigida nel suo solo corpo umano, resta/ per il bene dei ragazzi, poi resta/ solo per restare, sopporta,/ rinuncia, aspettando l’angelo della morte. / Dice che è tanto più difficile lasciare/ il secondo matrimonio, che non vuole crescere/ i figli come ha dovuto fare con noi, e Cosa direbbe la gente?/ Chiedo E se muori mentre aspetti?/ In un sogno ricorrente, / quello in cui guida da sola all’alba/ su una strada sterrata, e supera cammelli al pascolo, / la treccia le si scioglie al vento, il sole/ spunta, una Somalia senza guerra nello specchietto retrovisore./ Pensa a tutto questo, e ride.

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