Abdulrazak Gurnah - Il disertore - recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

 

 Abdulrazak Gurna

 Il disertore

 La Nave di Teseo, 2022

 

Siamo alla quarta puntata della conoscenza dello scrittore anglo-zanzibarino attraverso la pubblicazione de Il disertore, scritto nel 2005, dopo Paradiso del 1994, Sulla riva del mare del 2001 e Voci in fuga del 2021. Nel clamore suscitato dal suo premio Nobel di un anno fa non si pensa più a lui come ad una voce sommessa e non particolarmente significativa. Vengono alla luce tematiche che oggi emergono in autori più giovani africani e afroamericani, soprattutto dopo il Black Lives Matter che dal 2013 ha messo in moto numerose prese di posizioni sociali, politiche e culturali. L’esperienza di spaesamento del migrante e del rifugiato, dello sradicato che ricomincia tutto da capo nella terra di approdo o di elezione, del razzismo perdurante a molti livelli, la memoria storica della colonizzazione e della decolonizzazione, dell’acquisizione di nuove mentalità e costumi da armonizzare con quelli di origine; e ancora, la critica alle società tradizionali lasciate in patria e alla sete di potere delle élite, il valore del luogo in cui si è nati e dell’identità: Gurnah, in Inghilterra, condivide questi temi con altri autori, quasi tutti suoi coetanei, nati negli anni ‘40, poco frequentati in Italia come Vidiadhar Naipaul, anglo-indiano originario di Trinidad, del tutto sconosciuti come il tanzaniano Moyez Vassanji, mai tradotto in Italia o più che famosi come l’indo-britannico Salman Rushdie.

Il romanzo ha un attacco memorabile che conduce il lettore, all’alba livida di un giorno del 1899, tra le stradine tortuose di un villaggio della costa africana posta sull’Oceano indiano, non lontano da Mombasa (Kenya). Il mite bottegaio Hassanali, figlio di un indiano e di una africana di lingua e cultura swahili, dedito a pie pratiche religiose, proprio mentre si accinge a chiamare alla preghiera i fedeli, vede apparire quello che a lui appare come un mostruoso figlio di Shaytan, in cui ben presto il lettore scopre una sorta di personificazione del colonialismo: si tratta di un mzungo inglese male in arnese e disidratato, che superata la paura, Hassanali conduce a casa sua.

Qui ha inizio una gustosa rappresentazione della comunità locale, cui non sono estranei pregiudizi etnici e religiosi: anziani boriosi e pettegoli, la guaritrice, lo spaccaossa, donne sempre tese a non superare nell’abito e nei modi le rigide regole patriarcali dell’onore e della rispettabilità. A casa, Hassanali affida Martin Pierce, studioso orientalista e funzionario locale (era stato derubato e abbandonato malconcio dalle sue guide durante una spedizione) alla cura della sorella Rehana, una vedova bianca, il cui marito era scomparso nel nulla da dieci anni. Ci troviamo, come periodo storico, alla fine del potere del sultanato di Oman e agli inizi del protettorato inglese.

Un membro dell’impero britannico non può assolutamente restare nella modesta casa di un oscuro piccolo commerciante meticcio e interviene un rappresentante del governo britannico, tale Frederick Turner, a caricarselo a casa sua. L’autore si serve di un trio inglese, si aggiunge infatti ai due il grande proprietario di piantagioni Burton, per esemplificare le diverse sfumature di come l’impero concepisse la colonizzazione. A suon di colossali bevute di whiskey e di estenuanti calde gite a cavallo, Burton spiega che le potenzialità di sviluppo dell’Africa sono affidate alla scomparsa dei nativi e alla sostituzione degli inglesi agli autoctoni, troppo bestie per aspirare ad alcunché, facendo quello che si è fatto in America con i pellerossa e gli indios. Frederick ha un po’ più di ritegno e considera che sarebbe meglio guidare gli africani come bambini verso la civiltà, scuoterli dal loro torpore, spronandoli al lavoro. Pierce si limita a dire che forse un giorno potrebbero guardare con meno indulgenza alle azioni commesse e provarne vergogna.

Non si creda che siano tre mostri: amano la cultura, citano a memoria brani poetici e si prestano libri di poesia. Come per l’ufficiale tedesco di Voci in fuga, le descrizioni a tutto tondo delle contraddizioni umane sono un pezzo forte dei romanzi di questo autore. La bella Rehana e Martin intrecciano una storia d’amore clandestina (impensabile, per quegli anni, una relazione tra un bianco e una nera) durata fino a che l’inglese non ritorna in patria, lasciando lei madre di una bambina, dotando comunque la donna e la figlia di mezzi di sussistenza.

Un romanzo sentimentale di amori contrastati, frequenti nei romanzi di Gurnah? Perché ci viene raccontata questa storia, nella prima parte, in terza persona, se poi scopriamo che il narratore (in prima persona nella terza parte) è il zanzibarino Rashid?

Perché la seconda parte narra le vicende, negli anni ’60, di tre fratelli, Amin, Rashid e Farida, figli di insegnanti progressisti nell’isola di Zanzibar. I due maschi sono studenti brillanti, molto diversi l’uno dall’altro, ma molto legati. Ci troviamo alle soglie dell’indipendenza e prima della unificazione con la Tanzania: c’è aria di cambiamento, voglia di conoscere e trasgredire, desiderio di libertà individuale, in un ambiente in cui il controllo sociale e religioso della comunità è molto forte.

Se Rashid è il ribelle e sogna altri orizzonti, Amin è quello che non pensa di allontanarsi dal suo ambiente e vuole fare il lavoro dei genitori puntando molto sul valore della cultura. Ma è proprio lui a intrecciare una relazione (un’altra storia d’amore impossibile…) con la nipote della scandalosa Rehana, la cui famiglia si è trasferita e arricchita nell’isola di Zanzibar. I particolari delle due storie li lasciamo alla libera fruizione dei lettori. Rashid, fin da piccolo è soprannominato il piccolo italiano per via della sua mania dell’Italia, dell’Eritrea ed Etiopia mussoliniane, della lingua e cultura del belpaese e la fissazione per Dante, poco trattato dall’insegnamento degli inglesi, per i quali solo Shakespeare è il supremo vertice dell’arte. Spesso suscita risa o riprovazione parlando una sorta di grammelot italico…

A modo suo Rashid cerca di sottrarsi al conformismo dei locali e degli insegnanti inglesi e si convince, nel corso dei suoi studi, che se ne andrà in Inghilterra per studiare letteratura all’università, consegnandosi ad una diserzione, le cui conseguenze psicologiche saprà affrontare solo in età più matura. Amin soffre per il suo amore proibito, sentendolo come un tradimento delle aspettative famigliari, ma non ha gli stessi slanci rivoluzionari del fratello. Dalla partenza in poi, i rapporti di Rashid, con la famiglia e il fratello in particolare, saranno esclusivamente epistolari e passeranno anni prima di mettere in campo un suo ritorno. Seguirà da lontano gli eventi drammatici della sua isola dopo l’indipendenza che, come molti altri stati africani, si rivelerà incapace di affrontare i nuovi compiti, incontrando la difficoltà di mettere d’accordo tanti partiti ; tanti perché espressione del poliformismo etnico, culturale, linguistico di Zanzibar, nel contempo suo punto di forza e punto di debolezza, cadendo prima in una guerra civile e poi nel pugno di ferro di Nyerere, fautore di un socialismo africano.

Rashid cerca nelle lettere di trasmettere la sua vita in Inghilterra, sapendo che la famiglia non capirà veramente ciò che descrive e narra. Ciò che si sognava dall’isola, era in gran parte menzogna. E’ difficile spiegare come indifferenza e invisibilità siano gli elementi dominanti della sua vita, ai quale si è in qualche modo abituato, per una sorta di istinto di sopravvivenza. In una Inghilterra dalle luci morbide, liquide e poco solari, Rashid sente il bisogno di ripercorrere la storia della famiglia, comprendendo meglio la tragica storia di Amin, di sua sorella Farida, dei genitori e di sé stesso. Ne vuole scrivere come a consegnare la memoria di quanto accaduto, ad analizzare situazioni e stati d’animo che chiariscano cosa lui è diventato dopo vent’anni in questa terra che non è la sua, ma in qualche modo lo è divenuta. Anche perché la donna di cui si innamora è una discendente di quel Turner imperialista e razzista di cui sopra. A Gurnah piace molto chiudere il cerchio di tante storie…

In molte interviste si chiede all’autore quanta parte di elementi autobiografici siano presenti nelle sue opere. Lui risponde che è sempre partito dalla sua esperienza di esule e anche quando non si tratta di situazioni a lui realmente successe, sempre si trovano nei suoi romanzi personaggi, attraversati dalla multiculturalità, amanti della cultura inglese, alle prese con documenti burocratici, che fanno di mestiere gli insegnanti di scuola o i professori universitari. Personaggi che cercano non di assimilarsi, ma in qualche modo di conciliare aspetti culturali a volte contrastanti; soprattutto che fanno sulla propria pelle esperienze di razzismo o che discettano sulle conseguenze della decolonizzazione.

L’ultima parte, in questo senso, è focalizzante: abbiamo una specie di vademecum dell’esule, costretto ad accettare la differenza di bianchi e neri, fino ad arrivare a comprendere che questo non riguarda solo l’ex- impero britannico ma tutta l’Europa.” Così dovetti imparare qualcosa su questo, sull’imperialismo e su quanto la storia della nostra inferiorità e dell’appropriatezza del predominio europeo fosse radicata a fondo in quella che passava per conoscenza del mondo”. Particolarmente interessante la descrizione degli studenti africani, caraibici o indo-pakistani con cui si rapporta, con loro deve rodare la sua capacità di affrontare culture, idee, pensieri politici diversi: ma questo per uno di Zanzibar non è complicato. Una lingua intessuta di parole o frasi in swahili, spesso senza traduzioni o glossari in fondo al libro, espresse in una fluidità spontanea e naturale, che induce il lettore a comprenderne il senso. Il testo è stato scritto poco meno di venti anni fa, ma confrontandolo con Voci in fuga (2021), restiamo convinti che attribuire all’amore e alla letteratura un potere di salvezza siano ancora idee in cui crede. In questo libro più che mai si parla di letteratura, si citano gli autori amati e quelli in cui, per un motivo o per l’altro, l’autore si è identificato.

La maggioranza dei suoi libri sono stati scritti in periodi in cui ancora non venivamo bombardati da immagini di barconi stracarichi di gente che scappa dai cambiamenti climatici, dalla fame, dalla mancanza di libertà e dalle guerre. Ora però sono tragicamente attuali, soprattutto qui in Italia, e seguire i sogni, le frustrazioni e le speranze di questi personaggi non ci può fare che bene.

 

 

 

 

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