Sharon Dodua Otoo - Una stanza per Ada - recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 Sharon Dodua 0too

 Una stanza per Ada

 NNE, 2022

 traduzione di Fabio Cremonesi

 Una scrittrice anglo-ghanese, nata e cresciuta nella periferia londinese da genitori di Accra   emigrati negli anni ’70, con un rapporto di odio e amore per la sua città natale, si trasferisce   circa quindici anni fa a Berlino, innamorata della lingua tedesca, tanto da impadronirsene e   vincere il Premio Ingeborg Bachmann per la narrativa nel 2016. Questa autrice, una dinamica   cinquantenne, madre di quattro figli, come molte altre scrittrici afro-britanniche è un’attivista dei diritti umani, antirazzista e post-colonialista, femminista e altro ancora: punta su una letteratura immaginifica, tinta di realismo magico di ascendenza africana e di afrofuturismo.

Abbiamo presentato altri esempi di questo genere come per esempio la Khadija Abdalla Bajaber in Dimora di Ruggine o la Namwali Serpell di Capelli lacrime e zanzare: in comune hanno nel ruolo di protagonista donne, oggetti, cose e animali parlanti; inoltre salti temporali e soluzioni narrative inedite e anche un po’ rischiose, dato il tasso di difficoltà, per il lettore, di seguire questo turbinio vorticoso. Dai gatti parlanti, dai corvi spioni e serpenti malefici, da navi fatte di scheletri e relitti marini, dotate di vita propria della Bajaber si passa al coro greco delle zanzare filosofe e ai capelli allegorici in funzione metanarrativa della Serpell.

Nel romanzo di Sharon Dodua Otoo abbiamo come narratori uno spiritello che si reincarna in oggetti quali una scopa, un battente in bronzo di una porta in forma leonina, una stanza di un campo di concentramento nazista, e addirittura un passaporto britannico. Senza contare i godibilissimi intermezzi in cui assistiamo ad amene esternazioni di Dio, nei panni regolamentari di un vecchio maestoso proteiforme con la barba bianca che fluttua in vesti perennemente mosse dal vento pronunciando parole ironiche, se non sarcastiche, nei confronti dello spiritello che vuole aiutare le varie Ada durante i secoli e, peggio ancora, nei confronti delle sorti dell’umanità. Anche fenomeni naturali come una brezza diventano, per l’autrice, dei personaggi veri e propri… Ma già, in passato, ci avevano abituato a queste atmosfere da realismo magico Amos Tutuola, Mia Couto, Ben Okri, Agualusa e Ondjaki, tanto per citarne qualcuno.

Ma cosa avviene in questa storia? La lotta eterna di quattro Ada (si chiamano tutte così, pur nella diversità delle lingue) in diversi momenti della storia e del tempo: contro sessismo e maschilismo, contro sopraffazioni e violenze di ogni genere , dal colonialismo al razzismo e alla sorte ingrata dei migranti odierni.

La prima Ada coglie la protagonista nel momento in cui comincia, nella seconda metà del ‘400, la penetrazione coloniale portoghese nella Costa d’oro, poi Ghana: ha perso ancora una volta un bambino appena nato, senza il quale non entra nel gruppo delle madri e non ha quindi alcun diritto nella comunità del villaggio.

La seconda Ada ci trasporta nella Londra del 1848, con una nobildonna inglese. L’autrice fa riferimento ad un personaggio realmente esistito, Ada Lovelace, figlia di Lord Byron, insigne matematica e prima programmatrice di algoritmi della storia, con un marito e un amante, tale Charles Dickinson (proprio lui, il celebre scrittore) che non concedono nulla al suo genio non pensando possibile, per una donna, l’accesso a settori maschili quali la matematica e la scienza.

Con la terza Ada, che questa volta è una ebrea polacca, ci troviamo nel 1945 in un campo di concentramento dove alcune donne sono sfruttate sessualmente per i bisogni dei militari tedeschi e dei kapò nella famigerata stanza 37. Tutte e tre le donne finiranno uccise per mano di un uomo.

Solo con la quarta Ada ci troviamo ai nostri giorni: una Ada anglo-africana che a Berlino cerca (insieme ad una sorellastra tedesca che il padre migrante aveva omesso di rivelare) una stanza tutta per sé per far crescere la bambina che sta per partorire. Come madre single, dato che l’uomo con cui l’ha concepita è un musicista, eterno bambino nomade, incapace di qualsiasi responsabilità. A Berlino, Ada capisce che anche se in possesso di un passaporto inglese (che potrebbe non valere niente amministrativamente in una UE che sta per separarsi con la Brexit dalla Gran Bretagna) è sempre una straniera Nera e deve affrontare diffidenze e razzismo, spesso velato di ipocrisia.

A legare le storie è un misterioso braccialetto di perle che appare e scompare (è sempre lo stesso?) e che la Ada berlinese scopre fotografato in un volantino che reclamizza una mostra africana, in mezzo ad un dibattito sulla liceità della restituzione di arte sottratta dai colonialisti ai legittimi proprietari africani.

Forse il gioiello allude alla consapevolezza crescente delle donne, sottolineata soprattutto nell’ultima Ada che, da una gravidanza vissuta con fastidio e timore, passa a scoprirsi più forte, conscia di valere e di non avere bisogno di appoggiarsi ad un uomo che tra l’altro non sa che decisioni prendere, affermando la sua autonomia e libertà. Del resto, l’allusione, nel titolo, al testo di Virginia Woolf, appare chiaro e non certamente casuale.

Un libro certamente caotico che affida le idee della scrittrice a personaggi stravaganti, a momenti di descrizioni folli, ad un linguaggio narrativo fuori degli schemi che sorprende e forse per questo ci prende, sia pure vacillanti di fronte ad eventi o discorsi surreali, di ascendenza a volte fumettistica. Soprattutto ci trova smarriti di fronte agli improvvisi cambiamenti di epoche, voci narranti e protagonisti, anche nell’arco della stessa pagina. Ripagare l’autrice con un po’ di pazienza è il minimo che possa fare il lettore…

 

 

 

 

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