Aboubakar Soumahoro- Umanità in rivolta- a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

 

 Aboubakar Soumahoro

 Umanità in rivolta

 La nostra lotta per il lavoro e il diritto alla felicità

 Feltrinelli, 2019

 

 “Sapete cosa non deve fare mai un pugile? Non deve mai abbassare la guardia. E, più importante ancora, non deve farsi mettere all’angolo. Nel momento in cui sei all’angolo, puoi solo nascondere la faccia tra i guantoni o provare a schivare, ma prendi così tanti colpi che in pochi secondi finisci al tappeto”.

E’ l’incipit di questo breve e chiaro, appassionato e logico pamphlet del trentanovenne sindacalista italo-ivoriano Soumahoro, laureato in sociologia a Napoli e dirigente dell’Usb. Per chi pensasse di trovarsi di fronte ad un testo in cui si racconta in prima persona la storia di un migrante, arrivato pressoché ventenne in Italia, che ce l’ha fatta dopo varie peripezie, si sbaglia di grosso. Gli scarni indizi biografici servono solo come esempio  della condizione lavorativa precaria, provata sulla propria pelle, nei settori agricoli ed edilizi che riguarda molti stranieri, ma anche tantissimi italiani.

Non narra la sua vita, ma fa la narrazione politica degli eventi che lo hanno messo all’angolo, accomunandola a quella di centinaia di migliaia di persone “che pagano ogni giorno un prezzo molto alto per essere libere e felici”. Quel diritto alla felicità che i padri della indipendenza degli Stati Uniti introdussero nella costituzione e di cui nessuno sembra più ricordarsi.

Per prima cosa l’autore passa in rassegna tutti quegli elementi che hanno concorso a creare il problema immigrazione in Italia: i primi grandi naufragi del ‘96, del 2013, del 2015 e via dicendo non solo creano ondate di sdegno ed emozione, peraltro effimere, ma attraverso le immagini televisive dei barconi stipati fino all’inverosimile, contribuiscono a confermare l’idea di “paese invaso”, di “ grave emergenza migratoria”. Alcune forze e movimenti politici hanno spinto questa ansia collettiva fino a creare l’immagine del migrante, dello straniero come la causa di ogni male.

La militarizzazione delle coste, gli accordi sciagurati con la Libia per trattenere, con qualsiasi mezzo, compresi la violenza e soprusi di ogni genere, i partenti sull’altra sponda del Mediterraneo, i 6 miliardi di euro dati dalla UE  al premier turco Erdogan per tenersi i profughi e impedire di raggiungere i confini dell’Unione sono i maggiori risultati delle cosiddette politiche di contrasto all’immigrazione irregolare.  Soumahoro sottolinea come tutto ciò serva essenzialmente ai paesi europei per mantenere un consenso elettorale interno a discapito della vita umana, istituendo prigioni dove gli essere umani sono ridotti ad uno stato di schiavitù: tutto ciò per opera della vecchia Europa, la patria dei diritti umani.

Da sempre gli uomini si sono mossi individualmente, a piccoli gruppi o in modo massiccio senza che si creassero delle gabbie economiche, sociali e culturali nei loro confronti. Solo di recente si è categorizzato il “migrante” come un corpo estraneo al tessuto sociale, accentuando le differenze identitarie, sulla base delle quali migliaia di persone sono messe in una posizione di subalternità rispetto alla popolazione del paese di arrivo. Tutto ciò, in Italia, da circa trent’anni ha condizionato l’apparato amministrativo-governativo e ha influenzato le leggi dello stato.

Soumahoro parla di “razzializzazione istituzionalizzata”, basata sui presupposti precedenti della supremazia della razza e della civiltà bianca sulle altre, e sulla convinzione più recente dell’impossibilità di coabitazione tra culture diverse.”Gli uomini sono tutti uguali, ma il mondo andrebbe meglio se ciascuno stesse a casa sua, specie se gli intrusi arrivano dall’Africa e senza un soldo in tasca”. Se poi musulmani, questi sarebbero incompatibili con le società occidentali.

L’autore fa un excursus sulle leggi in materia di immigrazione: dalla Martelli  del 1990, passando per la Turco-Napolitano del 1998, la Bossi-Fini del 2002, per il “Pacchetto sicurezza” del 2008-2009 al decreto sicurezza di Minniti-Orlando del 2017 e a quello Lega-5Stelle del 2018, dove si evince che nessuna parte politica, né di destra né di sinistra, ha cercato di uscire da una considerazione meramente economica e/o di sicurezza della questione migratoria.

Di volta in volta il nemico pubblico è il clandestino rispetto al migrante con permesso di soggiorno, poi il richiedente protezione internazionale rispetto al rifugiato:il più cattivo di tutti per eccellenza è il migrante economico, che è praticamente diventato un epiteto ingiurioso. Da quando è esploso  il terrorismo islamico i barconi sono tutti pieni di pericolosi attentatori al nostro stile di vita europeo, secondo qualche politico in odore di sovranismo e supremazia occidentale...  

Il riverbero di tutto ciò è anche nella vita dei bimbi e ragazzi stranieri nati o scolarizzati in Italia, tenuti in sospeso in un limbo di non cittadinanza, anche se non hanno mai visto il paese di origine dei loro genitori e si sentono italiani a tutti gli effetti.

Per meglio far digerire tutto ciò si è passati a criminalizzare quanti lottano per cambiare le cose : vedi il caso del sindaco di Riace Mimmo Lucano e le Ong che pattugliano il Mediterraneo cercando di salvare vite umane. Alzare i muri o chiudere i porti è una semplificazione seducente per le civiltà ripiegate su stesse che temono di fronte alle crisi economiche di perdere quanto acquisito, ma non si può impedire a una parte della popolazione mondiale di non godere del diritto di libera circolazione. Viaggiare e circolare non è stato impedito a esploratori e colonizzatori, pratiche millenarie di spostamento hanno caratterizzato la vita di intere popolazioni, si va a stare dove si pensa ci possa essere una chance.

Oggi la crisi economica è addebitata ai migranti, alle spesse enormi cui inducono   gli stati per accoglierli o per respingerli: è facile passare al “prima gli italiani” o “aiutiamoli a casa loro”, se domina una semplificazione ideologica, redditizia in termini elettorali. In realtà è vero il contrario, è la crisi economica, ambientale e climatica che costringe le persone a muoversi e non c’è chiusura dei confini che tenga. Senza contare le guerre di alta o bassa intensità in Africa o in Oriente cui non è estraneo l’occidente, produttore di armi e accaparratore di materie prime: queste ultime sono più facili da controllare foraggiando milizie locali. La soluzione può essere solo nella messa in discussione del sistema stesso, perché non riguarda solo i migranti, ma tutti, nessuno escluso.

Dopo aver individuato le tappe attraverso le quali  lui stesso ha costruito la sua appartenenza all’ambito delle lotte sindacali, come la partecipazione al movimento dei Sans-papiers, la conoscenza e l’influenza del modo di operare del sindacalista della Cgil  Giuseppe Di Vittorio nei confronti dei contadini poveri del sud da cui proveniva, l’autore passa ad esaminare le vecchie e nuove schiavitù.

La situazione dei braccianti agricoli, ammassati nelle baraccopoli di S.Ferdinando o di Rosarno, per citare solo le più famose, in attesa di essere chiamati a lavorare per circa 2 euro l’ora, riguarda anche molti lavoratori e lavoratrici italiani, che certo non abitano in situazioni così precarie, ma che condividono con i migranti una situazione lavorativa spesso al di fuori di ogni controllo.

Si parla spesso di spezzare il capolarato, locale o etnico che sia, come se fosse la soluzione per eliminare queste situazioni di terribile sfruttamento. Ma il caporale non è altro che la punta dell’iceberg: alla base del sistema non ci sono solo gli intermediatori, ma il mercato delle sementi, la coltivazione e la raccolta, le lavorazioni post-raccolta, il trasporto, la commercializzazione e la distribuzione, la vendita nei banchi dei mercati e supermercati. Il problema è complesso e spesso si scontrano le esigenze dei grandi e piccoli produttori ( che sono assai diverse tra loro) che hanno in comune la necessità di scaricare sui lavoratori le eventuali difficoltà di mantenere alti i margini di profitto o le preoccupazioni di scomparire di fronte alle grandi imprese multinazionali. Ma si preferisce prendersela esclusivamente con il caporalato invece che con i grandi gruppi di cui si conoscono assai bene  i marchi e le ragioni sociali.

Certo, riconosce l’autore, si fa qualche leggina qua, si migliora un po’ la baraccopoli, si mette in carcere qualche caporale,  ma ancora non si emanano leggi che costringano i datori di lavoro, per esempio, ad accedere agli aiuti della Ue solo se sia dimostrabile la condizione di non sfruttamento dei lavoratori. Purtroppo i controlli sono praticamente inesistenti se non fatti in maniera sistematica e secondo criteri stabiliti. I lavoratori stranieri ,inoltre,  devono anche vedersela sul piano delle leggi migratorie, dato che le normative sui permessi stagionali sono restrittive e piene di lungaggini burocratiche. Si lasciano dunque incancrenire i problemi aspettando il prossimo morto che riaccenderà le polemiche  e l’intreccio con le mafie rende ancora più spinoso l’approccio alla questione.

Ci sono, infatti,  voluti fatti eclatanti per richiamare l’attenzione del paese sulla situazione dei braccianti oggi: l’uccisione del sudafricano Jerry Masslo nell’89, del sindacalista maliano Soumalia Sacko nel 2018 (fatti passare all’inizio dalla stampa come fatti genericamente criminali, di regolamento di conti tra bande) la morte per fatica della pugliese Paola Clemente,  incidenti stradali in cui sono stati decimati interi pullmini che trasportavano al lavoro lavoratori stranieri, senza badare alla sicurezza. Non si contano gli abbandoni di cadaveri ai bordi di strade di campagna, braccianti morti di fatica e di una vita di stenti o per incidenti sul lavoro, lavandosi le mani da ogni responsabilità.

Ma i lavoratori delle campagne hanno preso coraggio, cominciano ad avere meno paura di perdere le briciole che riescono a racimolare dal sistema, cercano sempre di più, lottando insieme, italiani e stranieri, di resistere ai ricatti, di chiedere garanzie non solo per chi produce, ma anche per chi consuma, in nome di una industria agro-alimentare che produca in modo sano, che salvaguardi l’ambiente e senza sfruttamento delle persone. Pensiamoci quando siamo tanto contenti di acquistare a prezzi stracciati merci che alle spalle hanno sofferenze, morti, diritti calpestati o azzerati.

Inoltre la condizione di precarietà e disuguaglianza oggi è estesa a gran parte del  mondo del lavoro, anche in settori che un tempo godevano di maggiori diritti e garanzie.

L’autore lancia un appello ai sindacati e ai partiti: siamo sicuri di saper cosa è davvero il lavoro oggi? Di non essere infarciti di pregiudizi, offrendo un’immagine superata che continua a ripetere formule desuete e parole vuote? Abbiamo capito che ciò per cui dobbiamo lottare non sono solo i bisogni materiali, ma anche quelli immateriali?

Vogliamo ’Il pane e le rose’ citava il film di Ken Loach  già venti anni fa, e ancora oggi  aggiungiamo noi.  Le donne sono le prime a pagare il dualismo tra le esigenze di soddisfare i bisogni e  quelle di non rinunciare  ad una dimensione affettiva.

Molti preferiscono attaccarsi ad una occupazione che soddisfi le esigenze materiali della vita, accettando ore di lavoro e livelli di fatica inimmaginabili, sacrificando le relazioni sociali e affettive, rispondendo alla sirena del capitalismo internazionale che ci vuole tutti consumatori senza sosta. La colonizzazione del tempo/ lavoro a discapito del privato sottrae tempo agli affetti , come ci mostra ancora una volta il regista Ken Loach, che da sempre è un attento analista del mondo del lavoro dei meno abbienti : ”Sorry we missed you” film  del 2019, segue la vita di un lavoratore in puro stile Amazon, dove la folle organizzazione del lavoro per non perdere profitti e battere una sempre più vigorosa concorrenza ne schiaccia la vita privata, con conseguenze drammatiche sul piano umano. La classe operaia di questo settore anonima, disgregata e isolata in un mercato del lavoro estremamente parcellizzato fatica a trovare una dimensione collettiva per ribellarsi e chiedere maggiori diritti e garanzie.

Così come anche i rider e tutto il mondo giovanile che ruota intorno alla gig economy, l’economia dei lavoretti, che oltretutto guadagnano ancora meno, sono al di fuori di qualsivoglia piattaforma di diritti. E che dire dell’esercito di lavoratori-giornalisti, giovani e meno giovani che la digitalizzazione dell’informazione ha reso, oggi,  molto più vulnerabili?

Sarebbero tanti gli esempi di come funziona oggi un modello economico totalmente disumanizzante, che coltiva la cultura dell’inimicizia e dell’odio come garanzia che non possa mai più scattare una solidarietà che è inseparabile dalla giustizia sociale e che oggi si presenta con una faccia cosmopolita. Dire no significa oggi rompere con le segmentazioni e le parcellizzazioni che ci mettono in gara per lottare per la propria integrità e non essere solo ‘braccia’ che lavorano, perché la ricerca della felicità non può consistere nel calpestare la vita e la felicità altrui.

Soumahoro è duro con i capitalisti, con i sovranisti, con i partiti della sinistra, con i sindacati ma non è solo  ideologico, ha i piedi ben piantati per terra e soprattutto non è un sindacalista da scrivania e da tavoli di concertazione, avendo conosciuto bene di persona ciò di cui parla. Per farcelo capire meglio cita le parole dei suoi miti personali che vanno da Mandela a Di Vittorio, da Alpha Blondy a Camus , da Muhammad Ali a Abdelmalek Sayad e Achille Mbembe: ma ci riempie anche di dati e di cifre a supporto dei suoi discorsi.

Lucido ed entusiasmante: un po’ di speranza ci vuole in questi tempi scarsi di valori autentici e progetti per il futuro che vadano al di là di interessi meramente economici e di potere.

 

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