Chinelo Okparanta - Sotto gli alberi di udala - recensione a cura di Rosella Clavari

 

Chinelo Okparanta

Sotto gli alberi di udala

e/o , 2023

traduzione di Tiziana Lo Porto

 

Romanzo d’esordio di Chinelo Okparanta, classe 1981, nigeriana emigrata con la famiglia negli Stati Uniti all’età di 10 anni, è stato pubblicato per la prima volta negli USA nel 2015. La prima cosa che colpisce, leggendo il romanzo, è la grande capacità narrativa dell’autrice che ci trasporta nel suo mondo con un sano realismo e una profonda percezione degli eventi e delle persone. Innanzitutto spieghiamo il titolo del libro che cita gli alberi di udala: nel Biafra crescono accanto a una lussureggiante vegetazione, alberi di arance e di udala, un frutto tropicale dolce e arancione; nella copertina vediamo le foglie dell’albero e due in particolare di diverso colore, arancione anziché verde. L’allusione è alla presenza della coppia di donne, diverse dalle coppie etero ma uguali nella loro identità sessuale.

Non dimentichiamo che in Nigeria l’omosessualità è un reato punibile con la condanna a morte se non ci pensano anonimi assassini con la lapidazione o altri metodi peggiori. Tuttavia l’omosessualità è il tema portante del romanzo ma non quello dominante. La storia della piccola Ijeoma seguita dall’infanzia all’età adulta, è una storia di guerra, di dolore, di privazioni, di lotta contro pregiudizi e rituali precostituiti.

L’azione si svolge nel Biafra , quel territorio che si affaccia sul Golfo di Guinea che nel 1967 dichiarò la propria indipendenza dalla Nigeria, dando inizio alla guerra civile. Proprio durante questa guerra civile , Ijeoma , figlia unica di famiglia cristiano-cattolica igbo, perde il padre dentro la casa devastata dalle bombe e poco dopo viene abbandonata dalla madre anche se per un breve periodo. In realtà la affiderà a una coppia senza figli,” il professore e la moglie” a svolgere servizi domestici in cambio di vitto, alloggio e una istruzione garantita. La madre, in cerca di una nuova abitazione, dopo la perdita della propria, la riprenderà con sé dopo un po’ di tempo ma sarà proprio in quel lasso di tempo che Ijeoma farà la sua prima esperienza d’amore incontrando Amina, una ragazza musulmana hausa rimasta senza famiglia che verrà ospitata con il consenso del professore, nella sua stanza. Se pensiamo che presso i cristiani igbo viene demonizzata non solo la scelta omosessuale ma l’appartenenza etnica, qui l’autrice in un sol colpo ci offre una situazione emblematica al riguardo.

La madre che incarna questa posizione di intransigenza e non inclusione, venuta a sapere dell’innamoramento della figlia, la invita a ravvedersi leggendo la Bibbia e meditando sui pericoli, sull’abominio cui sta andando incontro e farà di tutto per farla sposare rientrando nei ranghi della coppia eterosessuale con figli. Ma la ragazza, dopo Amina, incontrerà un’altra donna, Ndidi, di cui si innamorerà . Solo alla fine, dopo le molte insistenze della madre, accetterà il matrimonio con il compagno d’infanzia Chibundu, tuttavia le sue sofferenze non finiranno. Ijeoma manterrà sempre un dialogo epistolare con Ndidi che il marito tenterà di soffocare nascondendo le lettere di risposta di Ndidi, finché la nascita della figlia di Ijeoma non segnerà un svolta per Ia giovane donna.

La madre della protagonista, si rivela un personaggio interessante; pur con tutte le sue rigidità e fissazioni da bigotta religiosa rimane sempre vicino alla figlia e quando la lascia per poco tempo lo farà per prepararle una nuova casa abitabile. Si preoccupa della sua istruzione e non la abbandona mai, anche quando dovrà arrendersi e prendere atto delle esigenze della figlia, pronunciando verso la fine del romanzo poche sapienti parole; sapendo dell’infelice matrimonio e della prepotenza del marito di Ijeoma: “Dio che ti ha creato deve avere saputo quello che ha fatto. Quando è troppo è troppo” e la sentenza finale: “Ka udo di, ka ndudi” cioé “Lascia che sia la pace. Lascia che sia la vita”.

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