Djamila Ibrahim - Il peggio è passato - recensione a cura di Rosella Clavari

Djamila Ibrahim

Il peggio è passato

Mondadori, 2019

Traduzione di Silvia Manzio

 

Il sottotitolo di questo libro, una raccolta di nove racconti, recita : “donne in cerca di un luogo da chiamare casa”, emblematico di una situazione di nomadismo, di vagabondaggio, non solo fisico ma anche sentimentale. Quello che fa emergere l’autrice è soprattutto il senso di non appartenenza, di desolazione, lontani dalle proprie radici, lontani da una terra cui si è legati da una specie di odio-amore.  I motivi dell'odio, del disaccordo e del disagio affondano in una società patriarcale dove la donna ha un peso inferiore e una scarsa considerazione: soggetta, nella vita quotidiana, alle istanze del coniuge spesso scelto dalla famiglia , vittima di stupri o spesso delle usanze tribali che la obbligano a pratiche, come l'infibulazione, reprimenti la sua vita sessuale.

L’autrice, nata ad Addis Abeba,  è anche lei una donna emigrata poiché  si è trasferita in Canada nel 1990. Ha lavorato come consulente presso l’Ufficio immigrazione canadese e attualmente vive a Toronto. Possiamo immaginare quante donne avrà conosciuto attraverso il suo lavoro, ma quel che colpisce è la capacità di raccontare le loro storie: ogni racconto è ricco di riferimenti al passato e al presente, caratterizzato da relazioni finite o appena iniziate, pieno di sensazioni, sentimenti, meditazioni, tanto da poter costruire su ogni racconto un romanzo.

La guerra è spesso sullo sfondo a partire dal conflitto Etiopia-Eritrea 1978-1980 fino agli anni ’90. Aisha, nel primo racconto, ex-combattente nell’esercito della resistenza eritrea, si trasferisce a Toronto, in Canada, e qui fa la donna delle pulizie in un ospedale; la sua emancipazione femminile e i modi bruschi da militante  hanno  trovato ostilità nella sua terra e di conseguenza l' abbandono da parte del marito, su istigazione della famiglia cui era invisa. Aisha deve ricostruirsi così una vita, in un altro mondo, dove si è ricreata una piccola rete di amici delle più varie provenienze geografiche. Lei, abituata a studiare nelle aule del suo paese con un sottofondo di spari, ritrova però, parlando con i nuovi amici, anche il dolce suono delle chiacchiere familiari “il ritmo e la profondità della loro amicizia sono come un balsamo per le sue orecchie. Le ricordano l’infanzia, la sua famiglia numerosa, le chiacchiere e le battute..”

La guerra è presente anche nel racconto “Il peggio è passato” che dà il titolo al libro : Alem , vittima di un anno di prigionia, tra torture e violenze,  in un campo profughi del Sudan,va a vivere a Toronto con il fratello Benny; lui, superficiale ed egoista, accanto a lei prende coscienza del dover riallacciare i rapporti con la famiglia d’origine.

La sfortunata Sara in “Da qualche parte” è una colf che lascia Addis Abeba per andare in Siria e si trova nel mezzo della guerra civile che travolge Damasco.

Storie di guerra ma anche di violenza che si dispiega nei più vari modi: a partire da quella domestica, psicologica, nel racconto “Una mantenuta”, dove Yasmin, giovane musulmana canadese, si sposa per sfuggire alle imposizioni della famiglia, accorgendosi subito dopo di avere commesso un errore; in “Scusa se è poco”, la violenza di gruppo si esercita su una giovane donna, Selam, aggredita per le strade di Toronto solo perché indossa l’hijab.

Il racconto più intenso  e originale, per l’assenza di nomi dei protagonisti e la carica allusiva, è “Imparare a meditare”: qui si parla dell’estraneità di un padre al male commesso che scopriamo, solo alla fine del racconto, essere stato lo stupratore della figlia; durante il loro incontro in Canada, che avviene a distanza di molti anni lontano dalla terra d'origine, lei soffocata dal male e dai ricordi, scivola inesorabilmente nel passato torbido che riaffiora  nella sua memoria, incapace di opporvisi.

Quando si affronta il tema figli, anche qui l’autrice è in grado di toccare incisivamente i vari aspetti della maternità, da quella adottiva in “Acqua versata” dove la piccola Nebyiat trova difficile il suo inserimento nelle usanze americane, ricordandosi delle sue credenze; alla maternità scoperta come affermazione di se stessi nella continuità, ne “I figli restano”; alla drammatica perdita del figlio della povera Mariam, stigmatizzata nella frase “ Il Canada ha uno strano effetto sui genitori, li fa sentire come se fossero gli apprendisti dei loro figli” . I genitori adottivi bianchi si sentono inadeguati di fronte alla bambina impaurita dalle nuove usanze, in contrasto con quelle della sua famiglia d'origine, così come la donna emigrata si vede sfuggire dalle mani il figlio che si è integrato nella realtà delinquenziale del nuovo mondo.  Per queste donne emigrate l'acquisto di un certo benessere e di una sicurezza, intesa come tutela sociale, di contro presenta spesso la sicurezza dei propri  valori, delle proprie tradizioni, spazzata via dolorosamente.

Tutta l’opera è pervasa da accenti di malinconia, in un modo delicato e spesso poetico di raccontare le proprie speranze deluse e la forza tuttavia, nella maggior parte dei casi,  di continuare a vivere in un altro contesto geografico e culturale. 

L’aspirazione di sottofondo è tornare nella propria terra, tutti vorrebbero tornare. Aisha, che alla fine è tornata nella sua terra d’origine, ce lo ricorda con queste parole: “Non voleva morire da sola in terra straniera. Se doveva morire, voleva farlo in mezzo al suo popolo e per una causa per cui valesse la pena lottare. Voleva essere sepolta dov’era nata, nel Semhar, con l’odore della calda brezza marina nel naso e il gusto del sale sulla lingua”. 

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