E.C. Osondu - Quando il cielo vuole spuntano le stelle - a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

 

 

 E.C.Osondu

 Quando il cielo vuole spuntano le stelle

 Francesco Brioschi editore, 2020

 traduzione di Gioia Guerzoni

 

 Questo scrittore nigeriano, attualmente residente negli U.S.A, famoso ma non per i lettori italiani, perché finora mai tradotto, è stato vincitore nel 2009 del Caine prize for African Writing. Il testo attuale è uscito nel 2020 ma non ha circolato molto, a causa della pandemia, cosa che è successa a molti libri editi tra il 2020 e il 2021. A differenza di altri libri che hanno per tema il viaggio dei migranti dal deserto al Mar Mediterraneo, questo non è una testimonianza personale, ma una fiction che per noi italiani ha una attrattiva in più: il protagonista vuole assolutamente raggiungere Roma, che poi sta tout court per l'Italia.

Protagonista è un ragazzo ( senza nome) di un villaggio inventato similnigeriano denominato Gulu station, la cui stazione di fatto non esiste se non nelle intenzioni e nei desideri dei suoi abitanti. E’ chiaro l’intento dell’autore di voler dare una connotazione universalistica alle esperienze del personaggio principale: la vicenda si connota non solo come una migration story, ma anche come un passaggio dai sogni assoluti dell’adolescenza all’assunzione di realtà e responsabilità della maturità, una sorta di romanzo di formazione dunque. Tutto ciò per sottolineare che la dura realtà non deve eliminare la capacità di immaginare e che i sogni talvolta si possono avverare.

Un altro dato lo contraddistingue da testi simili: è dato largo spazio, prima della rappresentazione del viaggio, alla vita del villaggio, ai suoi abitanti, a ciò che viene lasciato e non solo alle immaginazioni dell’eldorado da raggiungere, all’ignoto che attende questi giovani. Il ragazzo di Gulu station parte con in testa i proverbi tradizionali, le scelte sagge degli anziani, la meraviglia della natura che lo circonda, l’affetto e la solidarietà degli amici e parenti: è la descrizione di un villaggio felice del poco che ha . E tuttavia si parte.

Si parte perché i migranti che tornano in vacanza nella propria terra, come il giovane Bros, restaurano la casa, la riempiono di cibo, di oggetti e mobili mai visti, scavano pozzi e invitano a festa tutti per condividere la ricchezza. C’è un mondo che vive sempre così, da cui loro sono esclusi, tuttavia con un pizzico di fortuna... ma non solo. Magnificano la vita ricca e splendida delle città d’Europa: Bros in particolare parla di Roma, dato che si è fermato in Italia, descritta come il paradiso, perché la città che ospita il papa ( e il papa è secondo solo a Dio) non può che essere paradisiaca, bella, bellissima, dice in italiano al ragazzo che lo ascolta rapito e attonito. Chiaramente Bros si rivolge ad un uditorio evidentemente cristiano cattolico.

Si parte anche perché si fanno vivi degli uomini armati che li vorrebbero arruolare nel loro lugubre esercito per combattere le ingiustizie del mondo, raddrizzare le immoralità e rinunciare ai cibi immondi quali i maiali che razzolano nel villaggio. Non c’è scelta: entro una settimana devono spuntare sette ragazzi, altrimenti tutti pagheranno le conseguenze. Anche il nostro protagonista parte, dal momento che non ha famiglia al villaggio, se non la vecchia Nene che lo ha allevato in seguito alla morte dei genitori e che lo ha lasciato da poco. Ma non morirà del tutto: le occhiate e le parole di Nene saranno una guida che lo salverà da parecchi pericoli durante il viaggio. Tutto è lasciato indeterminato: non viene nominato alcun paese, neanche la Libia, meta prima del viaggio nel deserto, si nomina un governante senza dire Gheddafi, si parla di religiosi fanatici senza pronunciare la parola jahdisti. La Libia è chiamato il paese delle voci nel capitolo 22: le notizie che angosciano i futuri partenti sono rumors che vanno e vengono come il vento. I predoni del deserto, la voracità di chi vorrebbe renderli schiavi, l’ipotesi che avrebbero cercato, Libia e Europa insieme, di impedire loro di partire, le navi costiere che non salvano i migranti, le donne che misteriosamente scompaiono, la polizia armata che picchia e imprigiona. Nulla di certo, solo un velo che si adagiava su di loro come la sabbia del deserto.

Per questo la vicenda assume le fattezze di una fiaba di iniziazione: c’è un riferimento esplicito alla iniziazione nella foresta degli adolescenti, esortati ad avere coraggio per uccidere il loro primo animale. Della fiaba ha la leggerezza, corroborata dai contorni vaghi dei luoghi. La crudezza dei fatti è dissolta in un’aura mitica ed epica e i protagonisti devono superare le lusinghe delle sirene come Ulisse: è lo spirito guida del ragazzo a salvarli da un trafficante di droga che vorrebbe pagarli per un viaggio in aereo per l’Europa, dopo aver ingerito strane palline… O da ribelli che vorrebbero sovvertire il governo anche con il loro aiuto, pagandoli come soldati e immettendoli in una guerra sicuramente lunga che non è certamente la loro. E forse questo tono convince di più il lettore ad immedesimarsi piuttosto che una impostazione da documentario realistico, come ci hanno abituato i media che si occupano di questo argomento.

L’autore immette il protagonista in una situazione collettiva: c’è chi parte per amore, per conquistarsi una posizione agli occhi della bella ritrosa, c’è chi vuole diventare un famoso calciatore, c’è chi fugge da un passato di bambino soldato e dalla guerra, chi, come Ayra, da un matrimonio con un vecchio che ha prestato soldi a suo padre che voleva farla studiare. Tutti hanno in mente di migliorare le condizioni della famiglia, oltre che le proprie. Nell’attesa della partenza per mare si vestono già, per abituarsi, in pieno clima caldo della Libia, con i giubbotti pesanti, dei cappelli di lana, degli scarponi e indossano zaini in cui c’è il tesoro del cellulare , gli indirizzi e i numeri da chiamare in patria e nel nuovo mondo, per chi ha questa fortuna come il protagonista, che ha imparato a memoria il numero di Bros a Roma. Non perdono la voglia di sorridere e scherzare, di raccontare storie. Tutti, come Sherazade, narrano storie per salvarsi psicologicamente, per non morire di paura e mantenere il sogno che li ha guidati fino a quel momento, per augurarsi un destino che non li cancelli. Qualche volta ognuno di loro parla del paese in cui vorrebbe andare a vivere. Fa un figurone quello che si immagina di essere ormai tedesco in Germania. Come fare per superare le mille cose che ha detto il compagno, dal momento che di Roma il nostro ragazzo sa ben poco? Quando tocca a lui parlare esce una Roma da favola, in cui sono tutti felici e sorridenti, solidali e benedetti ogni giorno dal papa che assicura loro la benevolenza divina…

Tragicamente la traversata cancella l’aura fiabesca: serpeggia terrore puro, c’è chi muore, c’è chi si salva. I salvatori dei naufraghi non suonano fanfare di benvenuto, come il protagonista aveva immaginato: certo danno cibo , coperte e medicine, ma lo fanno con il piglio di chi sta svolgendo una professione.

I connazionali già arrivati prima di loro consigliano di andare via, a cercare lavoro altrove nelle campagne a raccogliere pomodori, olive, arance. Se non ci vogliono loro, cosa faranno gli abitanti del posto? si chiede sbigottito il ragazzo.. L’ultima scena è a Roma: il leggendario Bros non risponde più al numero di telefono dato, i romani e la città non corrispondono all’immaginario, molte domande nascono nella testa del giovane.

Una delle frasi preferite di Bros era:” Quando sei a Roma, fai come fanno i romani”. “Mi guardai in giro. Cosa facevano i romani? Qualcuno beveva e mangiava. Qualcuno stava al telefono, parlava e rideva. Qualcuno fumava mentre camminava. Qualcuno passeggiava con calma. Qualcuno camminava come se dovesse arrivare in fretta da qualche parte. Avanzavano come se avessero uno scopo. E così cominciai anch’io a fare quello che facevano le persone a Roma. Mi misi in cammino”.

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