Emanuela Anechoum - Tangerinn - recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

Emanuela Anechoum

Tangerinn

edizioni e/o, 2024

 

L'autrice, madre italiana e padre marocchino e un'infanzia vissuta in un paesino della Calabria, è alla sua prima prova narrativa. Dalla Calabria a Milano, da Londra infine a Roma, dove ora risiede, si trova sempre a lavorare nel mondo editoriale. In un'intervista sostiene di essere vissuta sempre in mezzo alle letture, ai libri che le hanno dato l'energia per passare al romanzo, che non è autobiografico, anche se c'è qualcosa di lei nella protagonista Mina e qualcosa di suo padre nel personaggio di Omar, padre di Mina.

Quello che salta subito agli occhi è la differenza, nel lasciare il posto in cui si è nati, tra la migrazione di Omar da un quartiere povero di Tangeri verso l'Italia negli anni '80 e la migrazione da expat di Mina dall'Italia, nel segno di una generazione inquieta e insicura del proprio avvenire. L'uno fugge per raggiungere qualcosa: la fine della miseria, il sogno di creare qualcosa, l'entusiasmo di poter aiutare la famiglia restata in patria. L'altra fugge da qualcosa: un piccolo paese provinciale (si suppone della Sicilia, anche se non viene detto chiaramente) dove vige il controllo sociale, dove non allinearsi induce ad imbarazzanti etichette giudicanti da parte dei paesani, dove se sei donna, hai un solo destino, essere moglie e madre; dove se sei una mezzosangue, non hai speranza di essere accettata veramente e dove devi fingere sempre quello che non sei con la famiglia e con tutti gli altri. Non è che nel sud non si aiutino i migranti che arrivano dal mare: come afferma l’autrice, c'è una grande generosa gara cristiana per salvarli dalle acque, per poi disinteressarsene e abbandonarli, negandoli nella loro diversità e nei loro bisogni. Proprio lì inoltre, se sei proprietario di un bar devi pagare le tasse allo stato ma anche il pizzo ai mafiosi e sottostare a mille piccoli e grandi soprusi.

Queste sono le ragioni di Mina quando parte per Londra, anzi la città, dato che il nome non viene quasi mai pronunciato, e in questa città si sforza in tutti i modi di adeguarsi e di imitare le persone con cui entra in contatto. Troviamo una donna che affitta una camera a Mina, si tratta di Liz, una altoborghese che pensa di essere cool in quanto esprime concetti giusti sul razzismo e sulla povertà, sull'ambientalismo e sulla cultura Lgbt, sull'alimentazione corretta e sulla pace: in realtà Mina, pur adorandola e imitandola, sente la doppiezza di questa pretesa amica-pigmalione, ne percepisce la nevroticità, l'ossessione per la magrezza, l'inseguimento di falsi miti e in definitiva anche una sostanziale solitudine. Emerge il ritratto di un'appartenente ad una classe privilegiata di un paese che ha a che fare con gli stranieri da secoli e guarda dall'alto la sprovveduta e provinciale Italia alle prese con un problema migratorio imprevisto... Agli occhi di Liz occorre raffinare la cafona Mina: ci sono pagine divertenti e dissacranti sulla vita condotta da lei e dal suo codazzo di amiche, nella realtà e nella finta realtà rappresentata da instagram, da cui Liz non sa mai distaccarsi. Anzi la realtà diventa tale solo se documentata in quelle immagini e foto.

Mina è contemporaneamente contenta della sua nuova veste ma si odia perché quella libertà inseguita ostinatamente non rappresenta una vera svolta per la sua vita.

Di fatto ancora una volta Mina è costretta a mentire a se stessa, proprio come a casa sua, per sforzarsi di apparire giusta, per arrivare ad una approvazione che la tiri fuori dai suoi problemi di identità. Ma tutto questo la protagonista comincia ad essere costretta ad ammetterlo, quando arriva una fatale telefonata di Berta, la madre che le annuncia la morte del padre Omar. La necessaria partenza per l'Italia verso il paesino d'origine mettono in moto una serie di ricordi, domande, di riflessioni sulle occasioni perdute, sulla libertà. Torna a casa e tutto comincia a mettere in crisi la identità di cui si era dotata a Londra, torna ai problemi di sempre con la madre, la nonna, la sorella Aisha.

Comincia un lungo muto colloquio con il padre morto, che percepisce come figura chiave per capire qualcosa della sua stessa vita, appare una cavalcata di storie d'infanzia con Omar, amorosamente distante da lei, sempre occupato con il bar Tangerinn, un localetto frequentato quasi esclusivamente da immigrati, in riva a quello stesso mare da cui era arrivato: aveva creato qualcosa con cui manteneva la famiglia vicina e nello stesso tempo quella lontana, lasciata in patria, creando una figura di genitore ammirato e amato ma sfuggente e ritroso nell'esprimere i suoi sentimenti. Certo lui avrebbe voluto essere un atleta, bravo come era nella corsa; si era lasciato alle spalle il Marocco degli anni '80 con i disordini e le morti della rivolta contro il vecchio re Hassan, compresa quella del suo migliore amico e non aveva mantenuto la promessa di farsi raggiungere dall'amato fratellino minore, ma non era poi andata così male.

Scrive, prossimo alla morte, in una lettera indirizzata a sua figlia lontana e consegnata alla figlia Aisha per il ritorno della sorella: ”Casa è una parola sfuggente. Io non so più cosa penso quando penso a casa, i miei ricordi si fondono insieme e credo di essere contemporaneamente in due luoghi. Chi l'avrebbe mai detto che nella vita sarei stato così ricco. Ho passato così tanto tempo sovrappensiero, chiedendomi,se l'altra strada, quella che non ho percorso, sarebbe stata la migliore. Muoio senza saperlo, intanto però questa vita l'ho vissuta ed è stata la mia. Ti auguro lo stesso. Non si corre mai via da qualcosa, si corre sempre verso qualcosa. Corri verso te stessa e le cose che ti bastano, sapendo che se non ci fossero ce ne sarebbero altre”.

L'azione si sposta all'evento che dovrà celebrare, con tutti i frequentatori del caffè, la sua figura: immigrati e volontari del locale centro di accoglienza, compreso un giovane turco, proveniente da una buona famiglia caduta in difficoltà economiche, che fa parte di una imbarcazione di salvataggio in mare, e imbastisce una specie di storia con la protagonista, ma restio, come del resto lei, ad assumersi le responsabilità di una relazione seria.

Tutti scappano da qualcosa in questo romanzo: anche la nonna, sopravvissuta agli anni di piombo e ad una vita spericolata, madre di Berta, che ha fatto nascere senza mai averla voluta ed accettata, e ormai in demenza senile, scambia la sua badante polacca per una fuggiasca ebrea; Berta, donna fragile e da sempre strana (la donna pazza che si è presa un marocchino per marito, dicevano in paese) che vive in una eterna infanzia e non si è mai occupata delle sue figlie, visto che nessuno glielo aveva mai insegnato. Mina è tormentata da un amore-odio nei confronti della madre.

Solo Aisha sembra non fuggire: indossa il velo per suo piacere e non per obbligo, si è fatta carico delle responsabilità della famiglia e anche del locale, forse ha una latente omosessualità, ma sembra più serena di Mina nell'accettare le condizioni che la vita le offre: dopotutto chi dice che andarsene, assumere un'altra identità cambi veramente qualcosa?

In molte delle riflessioni offerte al lettore, la mente torna a quelle dello scrittore anglo tanzaniano Gurnah sui suoi protagonisti migranti immersi nei loro rimpianti, sul concetto di 'casa', sulla spocchia degli inglesi, sul sentirsi, in qualche modo, sempre fuori posto. Qui troviamo qualcosa di simile in una giovane scrittrice che si esprime con notevole maturità, incrociando sentimenti e ironie, furie e desiderio di quiete, tranches di storia italiana e marocchina. Una prova estremamente promettente.

 

 

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