Ghebreyesus Hailu - L'ascaro. Una storia anticoloniale - recensione a cura di Giulia De Martino

 

Ghebreyesus Hailu

L'ascaro- una storia anticoloniale

traduzione di Uoldelul Chelati Dirar

Tamu edizioni, 2023

 

Un romanzo breve, scritto nel 1927, di una settantina di pagine, ma unico e prezioso per molti motivi.

L'autore è un habesha, come lui stesso si definisce, equivalente alla nostra parola abissino, dal momento che si dichiara fautore della unione tra Eritrea e Etiopia anziché per il nazionalismo eritreo, nonostante la sua nascita proprio in territorio eritreo.

Il testo è scritto in tigrino, sua lingua madre. Le peculiarità sono da ricercarsi nel fatto che lo scrittore è un prete, che scrive relativamente a ridosso del coinvolgimento degli ascari coloniali nella guerra di Libia e che si pone dal punto di vista esclusivo dei colonizzati. Ricordiamo che il cosiddetto biennio della conquista coloniale non durò solo due anni (1911-13) ma si protrasse fino al 1943. Ma nel testo si fa riferimento ai due anni della ferma del protagonista che parte per Tripoli, nonostante gli avvertimenti degli anziani genitori.

Per non darci un semplice resoconto militare, l'autore s'inventa l'avventura di guerra di Tequabo, unico figlio vivo rimasto ai suoi genitori, che lo scongiurano, soprattutto la madre, di non partire. Ma inutilmente: il lettore viaggia con lui sulla nave che solca il mar Rosso e poi nella incredibile traversata a piedi nel deserto che terminerà nei luoghi dello scontro con gli arabi.

Lo scrittore è un colto e raffinato narratore che cita Leopardi e la Bibbia, che richiama certe descrizioni naturali di Lucrezio o Virgilio, dato che sa descrivere fenomeni naturali come albe e tramonti sul mar Rosso, violente tempeste di sabbia, gli uccelli e il colore del mare, con accenti scientifici e nello stesso tempo lirici e suggestivi. Cerca di spiegare con gli occhi di chi non ha mai visto il mare, le navi, gli aerei, le armi moderne, nutrito di sincera ammirazione per il livello di scienza raggiunto dall'umanità più fortunata. A queste descrizioni, però, vi unisce il vigore polemico nei confronti dei colonialisti italiani che cancellerebbero per sempre il trito ritratto di italiani brava gente se questo racconto fosse adeguatamente conosciuto: ufficiali oppressivi e autoritari, tronfi e sguaiati, razzisti e disumani che mangiano in deschi sontuosi, dentro le tende, dove poi riposeranno al riparo di sole e vento, mentre gli ascari si devono accontentare di poco, come mangiare pane e brodaglia, dormire all'addiaccio senza coprirsi, riempirsi il corpo di sabbia e poi tossire per espellerla da naso e gola.

Allorché gli ascari si avviano alle operazioni di guerra, si accorgono che i libici, arabi e tuareg, sono come loro, anche se onorano un altro dio, sono coraggiosi e intraprendenti e soprattutto combattono per la loro terra e la loro libertà. Ucciderli è come un orrore senza fine, ma ormai gli ascari sono in ballo e non si possono tirare indietro, oltretutto le punizioni sono severissime e si rischia di morire non solo per mano dei libici, ma anche degli italiani.

Allora perché sono partiti, perché hanno accettato di combattere per gli italiani una guerra non loro? La ferma era volontaria, è vero, ma comportava, per quelli che riuscivano a tornare, un gruzzoletto e la gloria. Ma la gloria di chi? tenta di spiegare Ghebreyesus Hailu. Ricorda ai lettori eritrei (e non) come l'educazione alla fierezza, l'onore di un guerriero, la bellezza di un duello facciano parte della cultura e delle tradizioni del suo popolo. Andare in guerra di per sé non era grave, ma lo diventa se ci si mette a servizio di un padrone che è capace solo di seminare odio e discriminazioni.

Sono bellissime le riflessioni di Toquebo, nel momento in cui si rende conto di tutto ciò: il velo delle illusioni è caduto e loro, gli ascari, non sono altro che piccoli ingranaggi di una enorme macchina da guerra di conquista. Solo la madre aveva presentito la catastrofe e muore di crepacuore poco prima del ritorno del figlio.

Altra immagine memorabile è proprio il ritorno a casa, la scena straziante della stazione, dove, in un grande caos, represso peraltro dagli zaptié, il corpo indigeno arruolato nella polizia e nell'arma dei carabinieri, tutti cercano qualcuno. Ma molti non sono tornati o qualcuno dei cari rimasti in patria è morto e non può accogliere il rientro con canti e grida di gioia.

Hailu unisce alle sue colte citazioni tanti proverbi, modi di dire, molte poesie e canzoni popolari proprio per trasmettere i sentimenti e le convinzioni del suo popolo, sorpreso anche nelle sue contraddizioni. Perché gli eritrei non hanno saputo reagire alla conquista italiana? perché sono corsi a caccia di lavori umilianti, perché hanno accettato compromessi disonorevoli in cambio di qualche favore, perché si sono accontentati di far crescere una bellissima città come Asmara, destinata ai soli italiani per vivere ai margini, in case povere, in condizioni di apartheid? Toquebo comprende che non si può essere ad un tempo colonizzato e strumento di ulteriori colonizzazioni. Una rivelazione brutale per la coscienza del giovane eritreo.

Ci aiuta a capire meglio il testo, la splendida prefazione del traduttore, Uoldelul Chelati Dirar, professore esperto di relazioni internazionali e associato di storia e istituzioni dell'Africa all'Università di Macerata. Nella biografia dell’autore, sottolinea che egli ha utilizzato uno dei pochi canali di mobilità sociale offerti dall'istruzione per i colonizzati, quello ecclesiastico. L'altro era proprio quello del settore militare, dato che servizi amministrativi e commercio erano riservati solo agli italiani: ricordiamo che, a differenza delle altre colonizzazioni europee, quella italiana operava conquiste, non solo per prestigio politico, ma servendosi dei territori sottomessi come colonia di popolamento e valvola di sfogo onde evitare pressioni sociali in Italia, soprattutto nell'epoca mussoliniana. Hailu dunque, fa la trafila della carriera ecclesiastica che gli permette di frequentare scuole e centri culturali di prestigio anche in Italia e nel resto d'Europa, arrivando ad un livello di rappresentanza diplomatica per conto della Santa Sede. Nel contempo fa un percorso via via sempre più critico sulla colonizzazione italiana. Questo spiega il motivo per cui il suo testo ha dovuto aspettare il 1950 per la pubblicazione; peraltro non lo ha aiutato neanche, in tempi di nazionalismo eritreo e di sentori di guerra con l'Etiopia, la sua posizione in favore dell'unione dei due paesi, forse attenuatasi nell'ultimo periodo della sua vita. Solo di recente ci sono state traduzioni del testo in arabo, in inglese e ora in italiano.

Se Uoldelul Chelati Dirar ha puntato sugli aspetti contraddittori dei colonizzati (mostrando un Hailu quasi anticipatore dei saggi di F. Fanon sulla psicologia dei colonizzati), l'altra prefazione della scrittrice etiope Maaza Mengiste punta sulle impressionanti somiglianze tra quella traversata del deserto degli anni '10 del 1900 e quella attuale di profughi e migranti, molti dei quali sono proprio provenienti dal Corno d'Africa, convinti di conoscere un po' gli italiani, per accorgersi poi che, ancora una volta, non sono proprio graditi come speravano.

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