Nadifa Mohamed
I gentiluomini di fortuna
Fazi Editore, 2025
traduzione di Silvia Castoldi
E' dal 2010 che nelle nostre librerie mancava un romanzo di questa autrice anglosomala, da noi recensita per Mamba boy, recentemente inserita dal The Guardian e dal New York Times, tra gli autori dei migliori libri dell'anno 2021.
La scrittrice ha scelto di lavorare su una storia vera, riguardante il somalo Mahmood Mattan, un marinaio proveniente dalla Somalia britannica, processato per un efferato omicidio, quello di una negoziante ebrea, e condannato a morte per impiccagione a Cardiff senza prove convincenti. Fu, nel 1952, l'ultima condanna a morte che si ebbe a Cardiff.
Soltanto per l'interessamento della moglie Laura, una bianca gallese, da lui sposata e madre dei suoi tre figli, assolutamente convinta della sua innocenza, Mattan ha avuto tardivamente, dopo quarant’anni, una riabilitazione, dato che nel 1998, fu ritenuto, da una apposita commissione, vittima di malagiustizia. Avvocati della difesa poco preparati, prove e testimoni manipolati, un sostanziale razzismo all'interno della polizia e insediato anche nelle aule dei tribunali hanno contribuito all'ingiusta condanna. La storia di quest'uomo è per la Mohamed un modo non solo di riabilitarne la figura ma anche per tracciare un contesto storico di razzismo e di boria imperialista, dominante negli anni dopo la guerra e durante la perdita delle colonie inglesi. E' anche un ritratto di un melting pot, rappresentato dal quartiere periferico di Tiger Bay di Cardiff, in cui si erano mescolati, sovrapposti o anche mal tollerati molti migranti provenienti dall'Africa, dall'Asia, dalle Antille, senza contare i numerosi ebrei, perlopiù polacchi, scappati dall'occupazione nazista del loro paese. Cardiff aveva visto il convergere, nel suo porto, di uomini da tutto il mondo dell'impero britannico (o meglio ex-impero) per impiegarli nello scarico e carico del carbone; con il corollario di bettole, pensioni equivoche, bar malfamati, prostitute e donne compiacenti e locali per il gioco d'azzardo. Uomini che arrivavano, come il protagonista, come marinai, e si ritrovavano sporchi, sfruttati, malvisti, ma utili, date le perdite umane maschili dopo la seconda guerra mondiale, perdendo via via l'illusione di potersi rifare una vita nell'eldorado di sua maestà britannica. Spinti, spesso, per bisogno, per vizio o per ribellione a rubacchiare.
Il titolo del libro tradotto in italiano sembra alludere alla definizione data a se stesso dal Corto Maltese di Hugo Pratt, a sua volta mutuata da Stevenson, con cui si indicavano in modo eufemistico i pirati. Titolo che si adatta benissimo al profilo del protagonista avventuroso che, partito dalla Somalia britannica, diventa marinaio mercantile sui cargo in giro per il mondo: incontrando le persone più disparate, entrando in contatto con una criminalità spicciola, dedicando il suo tempo libero a droga, alcol, prostitute, esprimendo una vitalità straordinaria che spesso cozza con la sua fede musulmana, a cui però non rinuncia. L'islam, per lui, sono la voce e le parole di sua madre che gli insegnava da piccolo le sure, sono l'infanzia e il suo amato paese, lasciato in cerca di fortuna.
Approdato a Cardiff, anche lui entra nei lavori del carbone, ma gli manca il mare e solo l'amore per una donna, Laura, gli fa mettere radici a Tiger Bay. Relazione scandalosa sia per i bianchi che per una parte dei neri, soprattutto antillani, eppure testardamente difesa da entrambi: la donna si mette contro tutta la famiglia, soprattutto sua madre. Ma il carattere maledetto di Mahmood, in preda all'alcol durante un lungo periodo di disoccupazione, nonostante ami molto lei e i loro figli, lo fa svoltare verso una vita di espedienti: furti e gioco d'azzardo per provvedere alla famiglia, finché la moglie, prese le distanze da tale vita, arriva a cacciarlo da casa. Lo ritroviamo così in pensioni squallide, in cui non viene compreso il suo carattere libertario e anticonformista. E' a questo punto della sua vita che succede il fattaccio: l'assassinio di una negoziante ebrea del quartiere, molto conosciuta e stimata.
Il lettore sa fin dall'inizio che lui non è colpevole e che sarà giustiziato innocente: dunque il centro della storia non è sapere come va a finire, ma comprendere il contesto in cui avviene il delitto e seguire l'evoluzione del personaggio da “uomo di vita” a persona consapevole delle proprie colpe ma anche di quelle del mondo, illuminato da una coscienza religiosa sempre più intima e sofferta. A dire la verità, il romanzo stenta un po' a centrare il personaggio perché nella prima parte l'autrice dedica molto spazio anche al dolore e alla sofferenza dei membri della famiglia della donna uccisa. Sofferenza antica, piena di ricordi dei pogrom in Polonia e della persecuzione nazista dalla quale sono scappati per approdare in un paese “libero”, non tanto libero però da considerare i neri in termini di uguaglianza. L'autrice rappresenta sia il razzismo sfacciato e brutale sia quello delle mezze parole, spesso pronunciate in sordina, ma sufficienti per essere udite dagli africani o dagli indiani.
Attraverso il protagonista la scrittrice lancia un attacco durissimo contro il razzismo in Gran Bretagna. Normalmente questo tema è più comune negli scrittori afroamericani, molto meno in quelli angloafricani, anche se recentemente alcuni scrittori hanno cominciato a svilupparlo. L'accento ovviamente cade sul binomio colonialismo-razzismo, ma siamo lontani da quell'aria di tristezza che avvolge, per esempio, i personaggi di Abdulrazak Gurnah : qui il protagonista grida, insulta, sogna, ha visioni, continua ad amare la sua famiglia con una forza teneramente brutale, ricambiato dai bambini e dalla moglie che è disposta a perdonargli tutto pur di riaverlo accanto a sé. Si permette sarcasmi sugli avvocati che dovrebbero difenderlo, sui poliziotti, sui meccanismi della giustizia britannica, attenta più alla forma che alla sostanza. E' qui che il romanzo vola e raggiunge punte di commozione autentica nel lettore che soffre con lui in prigione, chiuso in una routine assurda mentre attende la sua sorte non con rassegnazione ma con una comprensione che si allarga a tutta l'umanità, fidando finalmente nella giustizia divina, lontana dalle storture di quella terrena. Spera che i suoi figli raccolgano il testimone della sua rabbia, della sua alterità, ma anche della sua speranza.
Bellissimi sono tutti gli equivoci linguistici e le incomprensioni dell'inglese riguardanti il protagonista che tuttavia è un poliglotta per le tante lingue imparate in giro per il mondo, ma che non contano niente di fronte alla giustizia britannica. Romanzo toccante, anche per una certa capacità visiva che trasmette l'autrice e ci immette nella storia come davanti ad un film.