Noor Naga - Come dividere una pesca - recensione a cura di Giulia De Martino

Noor Naga

Come dividere una pesca

Feltrinelli, 2023

traduzione di Francesca Pe'

 

La scrittrice egiziano-canadese, cresciuta a Dubai, vivente attualmente in Egitto, ha vinto numerosi premi con questo testo, fin da quando era solo un manoscritto in attesa di pubblicazione.

Una sorta di epigramma è preposto alla lettura del romanzo ”Io non sono ciò che pensate che sia. Siete voi a essere ciò che pensate che io sia”: trovato dalla Naga come didascalia di una foto su Instagram, ci fa pensare subito a problemi di identità individuale oltre che etnica. E se Il titolo inglese If an egyptian cannot speak english introduce il tema delle differenze di linguaggio in una relazione amorosa, il titolo italiano Come dividere una pesca allude alle complicazioni psicologiche di una madre in una famiglia disfunzionale che tanto hanno influito sul protagonista egiziano della storia.

Anche lo scrittore marocchino Abdelkebir Khatibi, generazione post-indipendenze, nel romanzo Amore bilingue del 1983, si era chiesto se era possibile amarsi nella confusione di lingue non possedute dagli amanti in egual misura, ma qui lo sguardo è più ampio e si allarga ad una sorta di analisi dello strapotere economico-culturale dell'occidente, in particolar modo americano, e a quello del maschile sul femminile.

Dunque, il romanzo comincia con una ragazza americana di origine egiziana che, turbata dal dissesto psicologico causato dal divorzio dei genitori, si ficca in testa di andare nella patria dei genitori a cercare le sue radici, in preda ad una insoddisfazione identitaria: troppo chiara per inserirsi nella comunità nera, troppo araba per confondersi con i bianchi anche se ne condivide totalmente agi e privilegi borghesi, troppo benestante per condividere, senza sensi di colpa, le lotte dei poveri. Chi è veramente?

Ma quando giunge al Cairo con i capelli rasati e una testa pressoché calva, totalmente scoperta, sempre troppo osé, anche se in abiti lunghi e fruscianti, con un lavoro presso il British Council come insegnante di inglese (procuratole con una raccomandazione da sua madre con una sola telefonata a chi di dovere), occupando un appartamento in un antico palazzo del centro, pagato dalla famiglia, le sue illusioni e pretese di essere trattata come una donna egiziana cadono immediatamente. Balbetta un arabo infantile e gli spiacevoli equivoci linguistico-culturali si susseguono. Il suo modo di presentarsi, di parlare e agire attira le derisioni di tutti, dai bambini per strada agli adulti che incontra, compresi i taxisti e qualche mendicante che la scambia per una malata di cancro, data la pelatura del cranio.

Gli unici arabi che frequenta sono Sami, ricco e saccente figlio di papà, gestore del locale Café Riche e Reem, una lesbica artista e fotografa alla moda, che guadagna un sacco di soldi: entrambi consumano il tempo in quel locale bohemien, bevendo e 'fumando', convinti di essere contro il sistema, anche dopo la fine delle illusioni rivoluzionarie, ma lontani dalla miseria e oppressione dei veri poveri che quel sistema avevano tentato di rovesciare per avere una vita finalmente giusta e libera.

E' in questo ambiente che avviene l'incontro con il ragazzo di Shubra Khit e tutto sembra andare in direzione di una storia d'amore, un po' complicata ma romantica. Non sapremo mai i loro nomi e loro stessi utilizzano l'espressione l'americana e il ragazzo di Shubra Kit. Lui è un campagnolo, vissuto e cresciuto da una stramba nonna, che lo allattava porgendogli, ormai grandicello, il suo capezzolo per confortarlo dall'allontanamento dalla sua ancor più strana famiglia. Poi, inurbatosi al Cairo per studiare, diventa fotografo e durante i giorni della rivoluzione vende foto a tutti gli occidentali, in cerca di notizie e testimonianze, guadagnando un bel po'. Partecipa con entusiasmo e convinzione alle lotte di quei giorni, vivendo freneticamente. Con Al Sisi al potere tutto crolla e i benefici del cambiamento vanno tutti a quelli che nemmeno erano scesi in piazza.

La disillusione lo porta alla cocaina, al tramadol, alla miseria, fino a vivere in una topaia sporca e priva di tutto. Lei, l'americana, si innamora della sua lunga capigliatura, dell'aria naif e del comportamento fuori della norma. Il ragazzo cova un odio verso gli occidentali, uomini e donne, che li hanno usati in quei giorni a vantaggio dei loro interessi. Forte il risentimento verso le donne tedesche e italiane, accorse a vedere la rivoluzione dei pezzenti, in cerca di sesso violento con uomini selvaggi, cariche di pregiudizi e droghe.

Ben presto il testo rivela tutta la sua natura sperimentale. Diviso in tre parti, nelle prime due si avvicendano, in modo all'inizio confusionario, i punti di vista di entrambi, che spesso ripetono le stesse scene e dialoghi da un'ottica diversa. Nella prima parte i capitoletti, a volte brevissimi, riportano all'inizio delle domande, una sorta di indovinelli, non sempre immediatamente comprensibili o addirittura astrusi, rivolti a suscitare riflessioni su identità e linguaggio, su familiarità ed estraneità culturale.

Nella seconda parte abbondano asterischi e note a pié di pagina che sembrano far parte di un piccolo manuale su luoghi del Cairo, usi e costumi alimentari, modi di dire, musica, cenni di cultura sub-urbana giovanile come quella dei famosi e quant'altro, come se la scrittrice avesse cambiato destinatari della lettura, pur continuando la narrazione via via più drammatica della storia tra i due.

Nelle rispettive fragilità si amano e si usano a vicenda. Lei, cedendo alla protezione del ragazzo per strada, che la tiene distante da maschi ossessivi che la disturbano, e tentano di derubarla, in questo crede di sentirsi finalmente egiziana. Lui, piazzandosi, a casa della ragazza, trova un tetto decente e tenta di non 'farsi' più, dal momento che lei, non gli da le chiavi di casa e lui vive recluso, attendendola e rodendosi di gelosia ad ogni ritardo. Lei non pensa che lui se ne possa andare derubandola di oggetti, ma fa la prova della sua onestà disseminando banconote qua e là, come se fossero cadute casualmente, che restano ostinatamente dove le ha messe. Tuttavia quando lei fa scivolare soldi nelle sue tasche, lui, tacendo, se li tiene. La ragazza cucina per lui, gli lava gli abiti e sprofonda in una presunta egizianità, sforzandosi di attivare quel po' di arabo che sa, forse peggio del pessimo inglese di lui. Un gigantesco equivoco che finisce con un'azione aggressiva di lui che le lancia addosso un tavolino con le gambe di ferro, cosa che lo costringe ad allontanarsi da quella casa, in preda ad uno sconvolgimento. Quello che segue è solo un preludio ad una tragica fine: lui, ossessionato , la segue dappertutto immaginando, in una sorta di delirio allucinatorio, scene cruente di assalitori, da cui lui la salva, intervenendo al momento opportuno. L'americana, rivive una presunta autonomia e libertà, con una relazione con un inglese, a cui non deve spiegare nulla, condividendo lingua e cultura. Ma il modo di fare appassionato del ragazzo egiziano nei suoi confronti le resta in testa: ne desidera e ne teme il ritorno, sviluppando un complesso di colpa, che risulterà fatale.

La fine drammatica della seconda parte coglie il lettore di sprovvista, ma non quanto la terza parte: si cambia del tutto e il lettore si trova nel mezzo di una scuola di scrittura creativa con tanto di professore e studenti che stanno leggendo il memoir di una certa Noor Naga su una esperienza vissuta al Cairo. Gli studenti misurano il testo con i paradigmi della loro cultura giovanile: il Me too, la cancel culture, lontani e digiuni di situazioni storico culturali dell'Egitto odierno, non sforzandosi neanche di pronunciare correttamente i nomi arabi incontrati nella lettura. Anche qui malintesi e confusione.

Il finale è tanto furbo quanto geniale e lascia il lettore in sospensione e pieno di domande. Infatti il punto è proprio questo: l'autrice , in modo insolito ma onesto, pone più interrogativi che risposte e lascia che i lettori continuino il discorso da lei lanciato. Del resto su questi temi non è facile essere assertivi come pretendono alcuni, bisogna passarci in mezzo ed essersi scottati le mani per essere credibili.

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