Sulaiman Addonia- Il silenzio è la mia lingua madre - recensione a cura di Rosella Clavari

 

 

 

 

 

 

 

 Sulaiman Addonia

 Il silenzio è la mia lingua madre

 Francesco Brioschi ed. 2022

 traduzione di Gioia Guerzoni

 

 L’autore, di origine eritrea ma residente a Bruxelles, dopo un lungo soggiorno in Inghilterra che ha sempre considerato la sua casa, è qui al suo secondo romanzo: una dimostrazione sorprendente della sua capacità narrativa, maturata nell’esperienza dolorosa del campo rifugiati nel 1976 dove fu condotto a soli due anni con il fratello, orfani del padre che era stato assassinato; in seguito si trasferì e compì i primi studi in Arabia Saudita dove la madre aveva trovato un’occupazione per mantenerli e a 16 anni con il fratello ottiene asilo in Inghilterra dove potranno completare gli studi.

 Non a caso abbiamo premesso la sua origine: di padre etiope e madre eritrea, vive già nella sua nascita il connubio di due parti storicamente avverse, espressione di un conflitto che porterà tanti lutti e tanto dolore alle popolazioni inermi. Il campo profughi è quella zona neutra, quel limbo diciamo, anche se ha le caratteristiche di un inferno, dove il tempo si è fermato, si lotta per la sopravvivenza e gli istinti primordiali hanno la meglio: la fame, il sesso, il potere. Nel racconto la protagonista è una ragazza, Saba e in lei ritroviamo molti elementi biografici di Sulaiman. La dedica iniziale si riferisce a quelle ragazze e ragazzi che hanno perso la vita e a quelle che sono riuscite a sopravvivere e a uscire da quella prigione.

 La vita di Saba scorre accanto a quella dell’amato fratello Hagos, muto dalla nascita. Bellissimo e ammirato da donne e uomini, troverà l’amore nell’uomo d’affari Eyob, sopraggiunto nel campo profughi con il figlio Tedros, arrogante e infatuato di Saba. Alla fine ci troveremo di fronte a un matrimonio a tre, non voluto scandalosamente, ma creato dagli eventi : la madre che voleva sistemare a tutti i costi Saba, Saba che non avrebbe mai lasciato il fratello cui si sentiva congiunta come da un legame gemellare morboso ( non incestuoso come la avevano accusata la levatrice e il popolo del campo profughi, sottoponendola a un processo morale) e Eyob che accetta le condizioni di Saba “con noi dovrà vivere anche Hagos” . Come si arriva a questo? Forse è un percorso creato dal destino che sembra segnare ognuno di noi, in un racconto che ha una movenza orientaleggiante, oppure la reazione alla violenza subita da piccoli da parte di uno zio, o semplicemente la fantasia narrativa che sfida la presunta normalità della vita, la sua linearità esponendo tutta la propria fragilità. C’è un grido di dolore e di compassione per coloro che hanno subito non solo la violenza della guerra, ma anche quella tra le mura domestiche con l’imposizione del rito dell’escissione nelle bambine, con lo stupro, con l’imposizione dei ruoli maschili e femminili all’insegna della prevaricazione della donna.

 Tra i vari personaggi del campo, spiccano Jamal che ha una intuizione geniale: costruire il “cinema silenzioso”, cioè creare in un grande telo, sistemato opportunamente, un’apertura quadrata al centro da cui vedere la vita di coloro che si muovono e agiscono nel campo dall’altra parte del telo; chi vuole può spezzare questo silenzio, posizionandosi davanti al foro e raccontando una storia di suo gradimento. Alcuni vengono aggrediti e puniti per avere rivelato cose inopportune ma il fascino della rappresentazione riesce a catturare molti e a far dimenticare per un po’ dove si trovano a vivere. Poi c’è Nasnet, la prostituta, sempre disposta alla risata e molto generosa con Saba che le chiede di lavorare come domestica nella sua casa, di nascosto dalla madre. Il progetto di Saba è di mettere da parte un po’ di soldi per i suoi studi, una volta fuori dal campo.  Tra le relazioni che la giovane intreccia ci sono quelle con le amiche Zahra, figlia di una guerrigliera che ha dovuto lasciarla per andare a combattere, e la bellissima Samhiya che Saba concupisce immaginando di essere al posto di Hagos. Khawaja (il maestro) è colui cui Saba si rivolge per prendere lezioni di inglese e un posto speciale Saba occupa nel cuore di Jamal che ricreava tutti con il suo cinema o con la tv -scatola con personaggi di cartone, una sorta di miniteatro. Anche con il fratello ricorre a svaghi fantasiosi come il gioco della macchina fotografica ricavata da una scatola di latta, per instaurare un dialogo più ravvicinato; lui le suggerisce con la mimica i gesti e gli sguardi e “il corpo di Saba registrava le delusioni del fratello, la sua felicità, i suoi sogni e i suoi desideri”.

 Recensire questo romanzo spingerebbe a oltranza la disposizione narrativa, data la ricchezza di contenuti e di riflessioni che presenta. Si intuisce una conoscenza molto vasta della letteratura orientale ed europea. Personalmente ho trovato una grande consonanza con un romanzo italiano del dopoguerra “Il cielo è rosso” di Giuseppe Berto dove la vita di alcuni preadolescenti cresce in un proprio mondo di dolore e desiderio di amore, nell’assenza totale degli adulti. Ci sono anche dei momenti in cui il racconto di Addonia è meno sostenuto e accenna ad alcune immagine visionarie o lacune surreali che riducono la compattezza stilistica dell’insieme.

 La letteratura - per sua stessa ammissione - è stata una forma terapeutica, di consolazione e di riscatto per l’autore e probabilmente è consapevole del fatto che a volte si rischia di confondere la vita con la letteratura e di farsi fagocitare da quest’ultima. Eppure niente è più sorprendente della realtà, spesso la realtà supera la fantasia sia nel bene che nelle atrocità commesse dall’uomo. Tornando al titolo del libro, il silenzio è rappresentato da Hagos, coprotagonista con Saba, che con il suo mutismo incarna la capacità di ascoltare, di amare senza la menzogna della parola; il silenzio è quello che regna la sera nella misera capanna di Saba quando cena con la madre e il fratello, qui segno della sua mancanza di dialogo con la madre; il silenzio ha questa natura bivalente di presenza amica come la natura circostante e come lo sguardo complice e benevolo di una persona oppure può essere il silenzio imposto da chi ti riduce al mutismo asservendoti alle sue voglie, o anche il silenzio di una attesa angosciante, nel campo profughi, dove il tempo si è fermato al punto che nessuno porta con sé l’orologio al polso.

 L’autore ha dichiarato che non si esce mai dalla propria condizione di rifugiati ma anche in questo caso ha saputo trasformare il dolore in una edificante iniziativa sociale: ha fondato a Bruxelles un’accademia di scrittura creativa per profughi e richiedenti asilo e il Festival letterario Asmara-Addis in Exile.

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