Sylvain Coher - Vincere a Roma. L'indimenticabile impresa di Abebe Bikila - recensione a cura di Habté Weldemariam

 

 

 

Sylvain Coher

Vincere a Roma -l’indimenticabile impresa di Abebe Bikila

Traduzione di Marco Lapenna

66thand2nd, 2020

Ci sono immagini che rimangono per sempre nella memoria di ciascuno di noi. Immagini e memorie che travalicano anche l’aspetto sportivo, come quella di Abebe Bikila, che taglia il traguardo scalzo, al termine della Maratona di Roma del 1960.

La maratona è una delle gare più affascinanti dello sport in assoluto: è una gara lunga, una sfida con sé stessi prima ancora che con gli avversari, una spinta in avanti verso i propri limiti. E a distanza di 60 anni, rimane ancora una delle più belle pagine della storia dello sport di tutti i tempi.

La sera del 10 settembre 1960 è l’ultimo giorno di gare e il sipario si sta abbassando sull’Olimpiade romana. Come da tradizione, la chiusura è affidata alla gara che è il simbolo dei Giochi Olimpici: la maratona, una corsa massacrante di 42 chilometri e 195 metri, la stessa distanza che è stata percorsa nel 490 a.C. dall’ateniese Fidippide, uno che di mestiere faceva ‘l’emerodromòs’ (1). A piedi, a distanza di 2450 anni, un uomo ha appena percorso la stessa distanza di Fidippide, i 42 chilometri e 195 metri, con un tempo che nessuno, alle Olimpiadi, aveva mai fatto prima: Abebe Bikila.

L'essenza interiore di Abebe Bikila emerge nel libro Vincere a Roma che lo scrittore francese Sylvain Coher ha appena dedicato all'atleta etiope che vinse la Maratona ai Giochi Olimpici di Roma. Un racconto tutto in prima persona, suggestivo ed evocativo, sull'impresa di 60 anni fa che rappresenta uno degli eventi simbolo dell'intero ventesimo secolo. Perché nel trionfo di Abebe Bikila si intrecciano storia, arte, immagine, cultura millenaria, oltre a una classica situazione che ogni tanto riaffiora nello sport: lo sconosciuto che batte tutti.

Come Sylvain Coher, tantissime persone ed eventi sono stati ispirati da Bikila: un esempio tra gli altri, la 16^ edizione della Maratona di Roma del marzo 2010, che era stata dedicata proprio ai 50 anni dalla vittoria di Abebe Bikila e che fu vinta da un altro atleta etiope, Siraj Gena (2). Per rendere omaggio a Bikila, Gena si tolse le scarpe per correre le ultime centinaia di metri e tagliò il traguardo scalzo. Sempre nel 2010 è stata posta una targa commemorativa per la stessa occasione in Via San Gregorio, di fronte all’ingresso del Palatino, che recita:

                                                                                                  Ad Abebe Bikila,

                                                                                             Maratoneta d’Etiopia

                                                                           Vincitore della Maratona della XVII Olimpiade

                                                                                    Sulle strade olimpiche di Roma

                                                                       Raccontò al mondo il cuore e l’orgoglio della sua terra.

MA CHI ERA ABEBE BIKILA?

E soprattutto, che cosa ha compiuto per guadagnarsi frasi memorabili incise nel marmo, come i grandi condottieri nell’antichità della Città Eterna?

Nessuno lo conosceva, ma fin da bambino ha "divorato" l’acrocoro (3) etiopico, trasportando latte o acqua senza disperderne neanche una goccia e, ai Giochi del 1960, lo apprendiamo così come lo racconta lo scrittore francese Sylvain Coher.

Allo scrittore francese l’idea Vincere a Roma gli è nata per celebrare, in forma di finzione memorialistica, la maratona di Bikila. Lo ha fatto perseguendo un progetto molto ambizioso: trasferire in un lungo piano sequenza la corsa del campione etiope, assumendone il punto di vista esclusivo, a intervalli irregolari, interrotto dalle incerte interferenze di una radiocronaca di un’emittente francese, frasi sconnesse che, in una gracchiante diretta con il suo studio, fa dei commenti inappropriati e non ne indovina una: metafora, fin troppo scoperta, di un mondo impreparato all’irruzione di Bikila nell’atletica e delle Afriche sulla scena internazionale.

Coher, in questo romanzo, si insinua nella mente del grandissimo maratoneta sotto forma di piccola voce e racconta dall'interno l'epopea del corridore scalzo. È scritto in prima persona, a parlare è Bikila stesso, che scorre come se fosse un lungo monologo teatrale, ed è anche l’invito che l’autore francese fa al lettore, prima che lo starter dia il via alla maratona. Coher propone di trasformare la stessa lettura in una corsa tutta d’un fiato, seguendo i passi e il ritmo di Bikila. Ed è questo il bello del libro e la sfida dell’autore: provare a entrare nei pensieri di quell’atleta etiope, pastore di mandrie, che si ritrovò per le strade della capitale Italiana che aveva sottomesso il suo Paese, con il compito di prendersi una rivincita a nome di tutta l’Africa. Ha un ritmo intenso e regolare la scrittura di Coher, proprio come una gara di maratona. E mentre leggiamo, ci sembra quasi di sentire il rumore dei passi di Abebe e dei suoi avversari.

L’espediente narrativo scelto dall’autore francese si rivela vincente per due motivi: da una parte il racconto, in prima persona, a ritmo di corsa, dà alla lettura scorrevolezza e rapidità al punto giusto: Coher ci accompagna, con quello che vede Bikila, quello che prova Bikila, quello che pensa Bikila. Ovviamente una narrazione arbitraria, perché Coher non può sapere veramente quali erano i pensieri e condizioni fisiche dell’atleta etiope. Dall’altra la scelta di far parlare, con i pensieri, Bikila stesso. L’autore ci fornisce tutte le informazioni necessarie sull’atleta: lo sforzo di Bikila come una metafora, i suoi passi come parole…tutto in una scrittura densa e poetica come capita di rado nella letteratura sportiva oggi.

ORGOGLIO E RIVALSA DEL CONTINENTE AFRICANO

Nel romanzo Vincere a Roma, l’atleta etiope Abebe Bikila viene percepito come corridore di colore oppure il maratoneta africano. Un oro olimpico che incorona non soltanto l’etiope Bikila, ma l'intero continente in un'epoca in cui gli imperi coloniali si stanno sfaldando e si alza forte il grido dell'indipendenza.

Il 1960, battezzato “anno dell’Africa” è infatti un anno di svolta epocale che ha mutato gli equilibri del continente: si è dato il via al processo di decolonizzazione di ben 17 paesi che si dichiarano indipendenti da Regno Unito, Francia e Belgio. La RDC, uno Stato il cui territorio è storicamente preda dei colonizzatori, dai tempi di Leopoldo II, cede il passo al movimento nazionale congolese di Patrice Lumumba, figura carismatica e primo leader eletto democraticamente in un Paese africano. Inoltre, con quel successo, il panorama sportivo e culturale cambiò paradigma. La maratona olimpica di Roma fu infatti uno spartiacque nello sport olimpico mondiale e il popolo etiope/africano iniziò a godere di una nuova percezione, che, di lì a diversi anni, avrebbe visto i podisti dell’Africa orientale dominare le gare di lunga distanza in ogni angolo del mondo.

IL RITORNO ALLA CITTÀ ETERNA

La gara, con la quale calava il sipario sui Giochi olimpici romani, venne disputata di sera, fra le luci delle fiaccole e le ombre fosforescenti delle rovine della città antica. Si corse per la prima volta in notturna e per la prima volta l’arrivo non fu nello stadio Olimpico, ma sotto l’Arco di Costantino, scelta rivoluzionaria degli organizzatori. Si parte, alle 17.30, dal Colle Palatino e ai piedi del Colosseo e arrivo di notte sotto l’arco di Costantino, in un percorso suggestivo che attraversa la storia: i Fori Imperiali, il Colosseo, il Circo Massimo e le Terme di Caracalla, l’Appia Antica, le Mura Aureliane, i metafisici spazi dell’Eur. Ancora, l’Appia Antica, le Terme di Caracalla …. Nel mezzo, la luce rossa del tramonto e una serie di scenari mozzafiato. Più che una maratona è un viaggio nel tempo. Il percorso voleva celebrare, partendo dal Campidoglio, la grandezza di Roma.

Al tramonto tornano verso la città lungo la via Appia illuminata dalle torce. Una sagoma sbuca improvvisamente dalle tenebre. Alle sue spalle non c’è nessuno. Solo buio, silenzio e polvere. Per un attimo gli spettatori davanti e sulle tribune dell’Arco di Costantino restano stupiti poiché aspettavano di accogliere il sovietico Sergey Popov che doveva vincere la maratona nei Giochi olimpici del 1960. E invece quella sagoma era un ragazzo che correva a piedi nudi sui sampietrini della via Sacra, l'asfalto rovente della Colombo, il basolato di via Appia, accarezzando il selciato della Città Eterna come fosse la terra dei suoi acrocori d’Etiopia.

E al 37° chilometro, si compie la rivincita dell’Etiopia, come stabilito, all’altezza dell’obelisco di Axum – bottino dei saccheggiatori fascisti che il Duce fece piazzare nel 1937 di fronte al Ministero dell’Africa italiana, attuale sede della FAO (la stele è stata restituita all’Etiopia nel 2008). Dopo 42 chilometri e 195 metri, ecco di nuovo il Colosseo e l’Arco di Costantino - quell’arco trionfale alto 21 metri che sembrava essere lì, dal 312 d.C., in attesa di quel momento - il traguardo, il trionfo. Il tempo cronometrato a 2h 15’16”, gli vale l’oro e il record mondiale: è il primo atleta africano a vincere una medaglia olimpica, aprendo l’interminabile stagione del dominio nero nella corsa. Quattro anni dopo è ancora oro e record mondiale anche a Tokyo: 2h 12’ 11”.

60 anni dopo, il neozelandese Arthur Barry Magee, terzo nella maratona-icona, è l’unico sopravvissuto e ricorda al Corriere della sera: “…sulla linea di partenza io ero dietro l’etiopico. Dimenticati dell’uomo scalzo- mi disse un compagno dietro- Quello è un folle. In effetti, pensare di poter completare 42.195 metri correndo senza scarpe sulle ghiaie e sanpietrini...”. Mai previsione fu più sbagliata però! Strategia di gara? Nessuna! E nessuno ancora sa che se oggi, a 60 anni di distanza, ci ricordiamo della Maratona di Roma come una delle più belle pagine della storia delle Olimpiadi, è per merito di Abebe Bikila.

“Oggi che la maratona è un affare conclude nell’ intervista il terzo uomo che resta aggrappato ai suoi ricordi “la tecnologia e i soldi hanno rivoluzionato lo sport. Nei miei anni di corse non ho guadagnato un dollaro: la mia unica motivazione era la gioia di correre”. Infatti, il professionismo esasperato degli anni successivi all’epoca non esisteva. Sono stati Giochi dove i campioni potevano essere colti nel loro lato più umano. La loro quotidianità diventa parte integrante della narrazione.

P.S.: Sarebbe bello che questo Vincere a Roma finisse nelle mani di Yeman Crippa, il giovane poliziotto, di origine etiopica, che sta riscrivendo tutti i record del mezzofondo italiano, per cogliere la profondità racchiusa in ogni passo. Vi ricordo, che Yeman, all’anagrafe Yemaneberhan, è stato adottato, lui e i suoi fratelli, dalla coppia Crippa e, partendo dalle montagne di un paesino nelle Valli Giudicarie del Trentino, sta portando avanti il suo posto nel mondo dell’atletica mondiale.

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  • 1) Nell'antica Grecia “l'emerodromo”, cioè "colui che corre per un giorno intero", era un messaggero addestrato a percorrere lunghe distanze in breve tempo, per recapitare dispacci importanti da una città all'altra. Un servizio postale ante litteram, insomma. Come è noto, Fidippide corse fino ad Atene per annunciare la vittoria dei Greci sui Persiani dalla piana di Maratona, distante dalla città per l’appunto 42 chilometri e 195 metri. La leggenda vuole anche che Fidippide, subito dopo essere arrivato e aver dato ai suoi concittadini la grande notizia (“nenikamen”, abbiamo vinto), cadde a terra morto per lo sforzo compiuto.
  • 2) Nel 2010 a Roma nella Maratona del cinquantenario delle Olimpiadi, a trecento metri dal traguardo Siraj Gena rallentò per togliersi le scarpe e vincere in 2h08’39” e disse: “Bikila per me è sempre stato una fonte di ispirazione enorme. È lui che mi ha dato la forza per vincere questa maratona e ho voluto sentire cosa si prova a superare la linea d’arrivo a piedi nudi, come ha fatto lui quella volta".
  • 3) L'Acrocoro Etiopico è un insieme di montagne dell’Abissinia (Eritrea, Etiopia), un’estensione di rilievi costituiti sia da forme ad altopiano, sia da catene di corrugamento di altezza in genere notevole le cui cime sono alte dai 1500 m ai 4550 metri; è spesso chiamato Tetto d'Africa per l'ampia e alta area che occupa.

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