Espérance Hakuzwimana - Tutta intera - recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Espérance Hakuzwimana

Tutta intera

Einaudi, 2023

 

 

Avevamo conosciuto questa giovane scrittrice e attivista italiana nel testo E poi basta-Manifesto di una donna nera italiana del 2020, in cui aveva narrato la sua storia di bambina rwandese adottata da una famiglia bresciana in una sorta di autobiografia-pamphlet dai toni polemicamente accesi e appassionati.

Nel presente romanzo immagina una bambina, nata da una donna africana in un quartiere degradato di Basilici (rione di una città inventata) e data in adozione, a circa due mesi, ad una famiglia bianca benestante che vive nel quartiere di Bellafonte, al di là del fiume Sele che divide in due parti la città, anzi la Città. Pensando a dove vive attualmente l’autrice, non è difficile immaginare l’allusione a un qualche quartiere pericoloso di Torino diviso dal Po dalle zone abbienti e chic...

La mamma, cuoca del vicino asilo, e il papà, professore di lettere al liceo, la amano in modo un po' ottusamente protettivo, insieme alla famiglia dello zio, gestore, per conto del proprietario, di un grande estensione di terreno, coltivato a profumate pesche rosa, vanto produttivo di tutta la comunità: i lavoratori agricoli sono ovviamente in gran parte i migranti di Basilici...

Tutto il parentado adora questa bimba cresciuta come se non avesse un passato e una origine diversa dalla loro: ma le occhiate in tralice e le malelingue di qualche vicino, gli insulti dei bambini a scuola, le battute razziste pronunciate, senza capire che sono tali , da insegnanti, amici e parenti giustificano l'azione con cui si apre il romanzo. Sara bambina, anzi Saranostra, come viene chiamata da genitori e zii, espressione tesa a sorvolare sul colore della pelle e sulla diversità, trova una bottiglia di varecchina in bagno ed è pronta a lavarsi con il liquido che avrebbe cancellato per sempre il nero rendendola finalmente uguale a mamma e papà, a tutti. Solo l'intervento della madre scongiura il pericolo, ma nessuno capisce veramente il perché del gesto. Ed ecco tutti a consolarla che per loro il colore non conta e che non deve dare peso a insinuazioni grossolane e ignoranti. Comincia la sensazione di non essere mai accolta nei suoi giusti risentimenti e la sottovalutazione costante della situazione di bambina nera e adottata.

 

Anche lei adora i suoi genitori e fa di tutto per accondiscendere alle loro richieste finché non cresce e comincia a farsi domande serie, cui non riceve risposta, ma solo dimostrazioni di affetto, come quando era piccolina: ma ad un certo punto l'amore non basta più, anzi soffoca la ricerca di identità di Sara. Non solo è nera, è anche adottata e aleggia intorno a lei la figura di una madre che non l'ha potuta tenere, come le ricorda Don Paolo, il parroco della vicina chiesa; proprio lui ha raccolto la bambina dalle braccia materne portandola da quelli che sarebbero diventati i suoi genitori adottivi.

Da adulta ha un rapporto conflittuale con il padre, che l'ha cresciuta in una cultura borghese, con il mito della laurea e di un lavoro consono al livello familiare: ma è anche colui che le ha passato l'amore per le parole e la letteratura. Lei non è nera, ai loro occhi, perché è culturalmente bianca. La cultura in cui si viene cresciuti dunque conta di più del colore della pelle? Sara se ne accorge solo quando, abbandonata l'università, forse per seguire le orme del padre, e dopo una serie di lavori nella ristorazione, accetta un lavoro pomeridiano di potenziamento della lingua italiana in una scuola di Basilici, frequentata in maggioranza da ragazzi di origine straniera, in genere nati in Italia, la cui scolarizzazione è precaria come le famiglie da cui provengono. Lei è pronta a trasmettere tutto quello che sa, a far loro leggere i libri che hanno costruito la sua persona e il suo immaginario, a sciorinare tutta intera la bellezza della lingua italiana. Nella ricerca di identità e indipendenza non abita più con la famiglia, per non avere addosso gli occhi pieni di rimprovero del padre, che la vorrebbe laureata e sistemata, magari con quel ragazzo bianco che dice di amarla.

Don Paolo, che la conosce bene, invece ha fiducia in lei, sicuro che saprà trovare il suo posto nel mondo, per questo la propone alla preside della scuola di Basilici per quel corso pomeridiano.

Ma va tutto a rovescio: questi ragazzi parlano in media tre lingue, si esprimono inventando espressioni verbali che lei non afferra e di cui deve in continuazione chiedere il significato. Qualcuno ostinatamente resta con cappello calato e cuffiette per la musica in classe, qualche ragazza si fa la manicure, altri importunano Sara con richieste impossibili. Se ne infischiano delle letture che lei propone e a cui annette un'importanza che loro non comprendono. Si accorge sconcertata di essere pervasa dalla 'sindrome dell'uomo bianco buono e civilizzatore'. Sì, è nera come la maggior parte di loro, ma non è come loro. E, però, non è neanche come la sua famiglia. In più, ormai cresciuta, conosce il baratro che segna il fiume Sele: da una parte gli agiati, dall'altra quelli che devono sbarcare il lunario, fare i conti con i permessi di soggiorno e la precarietà dei loro salari. Comprende che lo zio, d'accordo con il proprietario, sfrutta gli stranieri: il pescheto, luogo di memorie di feste bellissime in primavera, improvvisamente acquista un altro volto.

La sua vita va in pezzi: si era creduta intera e ora si sente tagliuzzata in tante parti che non sa come ricomporre. I ragazzi del suo corso la prendono un po' in giro, ma tuttavia mantengono un legame con lei che arriva ad un invito nel loro quartiere. Sentono che Sara è in cerca di qualcosa.

La ragazza percorre le stradine del rione dove ha vissuto la madre naturale e dove lei stessa è nata: un'emozione profonda la invade, così come quando conosce da vicino le famiglie dei suoi ragazzi. Sente parlare di attacchi razzisti, di soprusi da parte della polizia, della scomparsa di una ragazza del suo corso, che teme possa essersi suicidata.

E tuttavia quei volti ostili e derisori degli studenti cominciano ad avere un significato per lei: aver avuto accesso alle loro vite, alle loro difficoltà, ai loro sogni, alle loro lingue che reinventano un italiano, pronunciato con accenti diversi, cambia la prospettiva in cui è, fino a quel momento, vissuta.

Nel momento in cui succedono dei 'fattacci di vendette presunte’ tra gruppi contrapposti dei diversi quartieri della città, avverte dentro sé una deflagrazione. D'ora in poi non farà sconti a nessuno, lascia il suo ragazzo che non è riuscito a percepire il sentore razzista di certe frasi, innocue per un bianco, da lui stesso pronunciate.

Saranostra deve continuare a convivere con tutti questi pezzi: quello che considera un innesto sbagliato, il suo trapianto nella famiglia adottiva, forse può fiorire ancora, le vite spezzate possono ricompattarsi ad un livello nuovo. Dopotutto i suoi ragazzi sono non i nuovi cittadini, ma i prossimi, come recita una memorabile frase di questo romanzo caotico. Caotico perché le fratture delle vite sono anche fratture temporali nella narrazione: il testo si configura come un flusso di coscienza che va su e giù nel tempo, togliendo il respiro al lettore che insegue stregato questa straordinaria autocoscienza della scrittrice.

Oltre alle tematiche forti come identità, politiche migratorie, razzismo e adozioni interazziali (affrontate senza una adeguata preparazione, perlomeno fino agli anni '90 era così) si sente nell'autrice l'ansia di spiegare queste nuove generazioni di italiani, cui raramente si dà voce e ascolto.

Testo coraggioso e prima prova di romanzo, pur con qualche acerbità, molto promettente.

 

 

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